Cosa significa riconoscere lo Stato di Palestina e quanti Paesi lo hanno già fatto


Negli ultimi giorni, diversi Paesi hanno deciso di formalizzare il riconoscimento dello Stato palestinese. Un passo soprattutto simbolico ma con forti implicazioni politiche. Tra i governi che hanno ufficializzato la decisione ci sono Portogallo, Regno Unito, Canada e Australia. In occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, la Francia ha dichiarato di riconoscere ufficialmente la Palestina «in nome della pace», mentre il Belgio ha espresso l’intenzione di seguirne l’esempio. In totale, su 193 Stati membri dell’Onu, 151 hanno già riconosciuto la Palestina. Restano fuori dalla lista almeno 46 Paesi tra cui gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei come Italia e Germania. Il riconoscimento, però, difficilmente cambierà nell’immediato la situazione sul terreno. Serve soprattutto a esercitare pressione politica su Israele e il governo di Benjamin Netanyahu e a spingere per un cessate il fuoco a Gaza.
Come funziona il riconoscimento di uno Stato
Riconoscere uno Stato è una decisione politica e discrezionale, che ogni governo prende in autonomia. Non esiste un obbligo internazionale: la pratica può avvenire tramite comunicati ufficiali, lettere o dichiarazioni congiunte. Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, uno Stato deve avere quattro requisiti minimi: popolazione permanente, territorio definito, governo e capacità di intrattenere relazioni con altri Stati. La Palestina soddisfa solo in parte questi criteri, dato che gran parte dei suoi territori è sotto occupazione israeliana e il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è limitato alla Cisgiordania ed è impopolare e inefficiente, mentre Gaza è sotto il controllo di Hamas dal 2007. Nonostante ciò, la maggior parte dei Paesi riconosce la Palestina come misura simbolica in difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
Cosa comporta concretamente il riconoscimento
Dal punto di vista pratico, riconoscere uno Stato apre la strada a rapporti diplomatici formali. Significa poter inviare ambasciatori, aprire consolati e instaurare canali ufficiali di comunicazione. Alcuni paesi, come l’Italia e gli Stati Uniti, pur non riconoscendo la Palestina, mantengono uffici di rappresentanza per gestire relazioni politiche, economiche e umanitarie. Il riconoscimento consente anche di rivedere accordi commerciali e procedure consolari, ad esempio in relazione a visti e scambi economici. Inoltre, può agevolare l’accesso della Palestina alle organizzazioni internazionali. Dal 2012 la Palestina ha lo status di “osservatore permanente” all’Onu: può partecipare alle riunioni, ma non votare. L’ingresso formale come membro richiederebbe il sostegno del Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti mantengono il diritto di veto.
Le critiche al riconoscimento
Non tutti vedono nel riconoscimento un passo efficace. Alcuni osservatori e media pro-palestinesi sostengono che si tratti di gesti più simbolici che concreti, capaci di creare illusioni sulle reali possibilità di cambiamento. In effetti, finora le iniziative pratiche contro Israele, come aiuti umanitari o evacuazioni sanitarie dalla Striscia, sono state limitate e poco incisive. Alcuni Paesi, muovendosi da soli, hanno cercato di fare di più. La Spagna, ad esempio, ha annunciato restrizioni su armi e transiti di merci legate al conflitto, compreso il divieto di importare prodotti provenienti dai territori palestinesi occupati. Ma azioni isolate hanno minor impatto se non coordinate a livello internazionale.
Uno strumento politico più che pratico
In sostanza, riconoscere la Palestina serve a inviare un messaggio politico forte. Dimostra sostegno alla causa palestinese e pressione sul governo israeliano, ma non modifica nel breve termine la vita quotidiana dei cittadini di Gaza o della Cisgiordania. Il passo rimane comunque rilevante perché rafforza la legittimità internazionale di uno Stato che lotta per la propria autonomia, e può aprire la strada a future iniziative diplomatiche, economiche e umanitarie.