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La proteina che spiega perché l’influenza è più letale negli anziani

28 Settembre 2025 - 10:22 Gemma Argento
influenza anziani rischi
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In Italia quasi metà degli over-65 non si vaccina contro l’influenza, mentre gli anziani sono ormai un quarto della popolazione. Un nuovo studio chiarisce il meccanismo biologico che li rende più vulnerabili al virus, rendendo ancora più urgente rafforzare la prevenzione

Il virus dell’influenza quest’anno non ha concesso pause: una circolazione anomala e costante anche nei mesi caldi ha accompagnato l’Estate, e ora con l’arrivo della stagione autunnale, il rischio è che la curva torni a salire con più decisione. A farne le spese sono soprattutto gli anziani, per i quali l’influenza non è mai un semplice disturbo di stagione: cresce la probabilità di complicanze e ricoveri, e la scienza ha appena individuato un nuovo tassello che aiuta a spiegare questa fragilità. Un recente studio internazionale ha spiegato il preciso meccanismo biologico che svela i motivi per cui nei soggetti anziani il virus influenzale può avere effetti letali, chiarendo le caratteristiche di una vulnerabilità che i dati clinici già suggeriscono da tempo. La scoperta si innesta in un quadro tutt’altro che rassicurante: secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Salute, quasi la metà degli anziani in Italia non risulta vaccinata contro l’influenza lo scorso inverno. Una combinazione che preoccupa gli esperti e accende i riflettori sulla possibile sfida sanitaria dei prossimi mesi.

La proteina “iper prodotta” che rende più fragili

Il nuovo studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha provato a guardare da vicino cosa accade nei polmoni con l’avanzare dell’età. I ricercatori hanno lavorato sia su campioni umani sia su topi da laboratorio, i cosiddetti “modelli murini”, usati in medicina proprio perché il loro sistema immunitario è molto simile a quello umano. È emerso così che negli anziani una particolare proteina, l’apolipoproteina D (ApoD), viene prodotta in quantità molto più elevate rispetto ai giovani. Questo squilibrio compromette le difese antivirali: il virus riesce a replicarsi con più facilità e, nello stesso tempo, i polmoni subiscono danni più estesi e difficili da riparare. In altre parole, l’organismo non solo reagisce con minore efficacia, ma si trova anche più esposto alle conseguenze dell’infezione.

L’ApoD è una proteina normalmente coinvolta nel metabolismo dei lipidi e nei processi infiammatori che però, secondo le ultime ricerche, è in grado di ridurre la capacità dell’organismo di attivare una risposta antivirale efficace. «In particolare», spiegano i ricercatori, «la produzione elevata di ApoD che accompagna l’invecchiamento guida un danno esteso ai tessuti durante l’infezione e riduce la risposta protettiva degli interferoni di tipo L ». Si tratta di molecole-chiave del sistema immunitario, fondamentali per dare l’allarme contro i virus nelle primissime fasi del contagio. 

L’eccesso di ApoD, inoltre, si associa a un deterioramento dei mitocondri, le “centrali energetiche” delle cellule, con una conseguente minor produzione di energia e una ridotta capacità di contenere il virus. Il risultato è duplice: da una parte una maggiore replicazione dell’agente patogeno e dall’altra lesioni polmonari più estese. «L’invecchiamento è uno dei principali fattori di rischio nei decessi legati all’influenza», sottolinea Kin-Chow Chang, professore alla School of Veterinary Medicine and Science di Nottingham e co-autore dello studio. «Capire perché i pazienti anziani soffrono più severamente le infezioni da virus influenzale è fondamentale in un’epoca in cui la popolazione mondiale invecchia a ritmi senza precedenti». 

Una prospettiva di cura 

I ricercatori vedono in questa scoperta anche possibili prospettive di cura. Se ApoD agisce come un “acceleratore” del danno polmonare negli anziani, bloccarne l’attività potrebbe diventare una strategia terapeutica. «C’è un’opportunità entusiasmante per proteggere gli anziani dalla gravità dell’influenza attraverso il blocco mirato di ApoD», osserva Chang. Un obiettivo non semplice, ma non irrealistico: «In passato, molecole sperimentali capaci di modulare proteine coinvolte nell’infiammazione sono già state sviluppate». Interventi di questo tipo, adattati a colpire ApoD, «potrebbero ridurre la sua produzione o neutralizzarne gli effetti, restituendo ai polmoni una migliore capacità di difesa». Non una soluzione immediata, ma una nuova strada che, insieme al vaccino, potrebbe in futuro cambiare l’approccio alla protezione degli anziani dalle infezioni respiratorie.

Cresce la fragilità, diminuisce la prevenzione

Nel mondo la popolazione anziana sta crescendo a ritmi senza precedenti. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli over 60 erano circa 1,1 miliardi nel 2023, numero che salirà a 1,4 miliardi entro il 2030, mentre entro il 2050 si prevedono 2,1 miliardi di persone con almeno 60 anni. Un altro dato che richiama l’attenzione è quello degli over 65: la percentuale di ultra-65enni sulla popolazione totale è destinata a più che raddoppiare rispetto ai livelli del 2000.

Anche in Italia il fenomeno è ben visibile: la fetta di popolazione anziana è consistente, con una delle piramidi demografiche più “vecchie” in Europa, caratterizzata da un’aspettativa di vita elevata e bassi tassi di natalità. In questo contesto, la popolazione over-65 rappresenta una quota importante, e non solo come cifra statistica, ma come categoria sanitaria con bisogni specifici crescenti. Secondo l’Istat, al 1° gennaio 2025, gli over-65 in Italia sono circa 14,5 milioni, pari al 24,7% della popolazione nazionale; gli over-80 superano i 4,6 milioni, e il loro numero ha ormai superato quello dei bambini con meno di 10 anni (4,3 milioni). 

Ed è proprio qui che emergono segnali di allarme nei numeri più recenti sulla vaccinazione antinfluenzale. Nella stagione 2024-2025, la copertura tra gli ultra-65enni si è fermata al 52,5%, leggermente in calo rispetto al 53,3% dell’anno precedente, ben lontana dall’obiettivo del 75% fissato dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale. Ciò significa che quasi un anziano su due non si è vaccinato, proprio nella fascia più vulnerabile.

Perché il vaccino può fare la differenza?

Alla luce di queste fragilità biologiche, il vaccino antinfluenzale assume un valore ancora più cruciale. La sua utilità non si limita a evitare il contagio, ma consiste soprattutto nel preparare in anticipo il sistema immunitario a riconoscere il virus. Con l’età, le difese diventano meno pronte e meno coordinate; il vaccino funziona come una sorta di “memoria artificiale”, che aiuta a ridurre il tempo necessario a rispondere all’infezione. Significa che, anche se il contagio avviene, il virus trova un organismo già parzialmente allertato, capace di contenerne la replicazione e di limitare i danni ai polmoni.

Le prove a supporto sono numerose. Diversi studi internazionali hanno mostrato che la vaccinazione negli anziani riduce in modo significativo il rischio di complicanze respiratorie e ricoveri ospedalieri. Tra i più recenti, un ampio studio pragmatico condotto nel 2023-25 su oltre 100.000 over-65 ha evidenziato che chi riceve il vaccino ad alta dose ha un rischio di ospedalizzazione per influenza o polmonite inferiore del 23,7% rispetto a chi riceve il vaccino standard. Risultati in linea con quanto documentato anche in altri grandi trial europei, come il DANFLU-2 che ha registrato una riduzione significativa delle ospedalizzazioni cardiorespiratorie negli anziani vaccinati con formulazioni potenziate. C’è poi un beneficio indiretto: vaccinarsi non protegge solo chi riceve l’iniezione, ma riduce anche la circolazione del virus nella comunità. È un effetto particolarmente importante negli ambienti collettivi, come le RSA, dove bastano pochi casi per scatenare catene di trasmissione difficili da contenere. Per questo, in attesa che la ricerca apra nuove strade terapeutiche, il vaccino resta oggi la prima e più immediata linea di difesa.

Foto in evidenza di mandy zhu su Unsplash

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