I fratelli Ramponi, il frutteto, il mutuo, la firma falsa: cosa c’è dietro la strage dei carabinieri di Castel D’Azzano


Dietro la strage di carabinieri in via San Martino 22 a Castel D’Azzano c’è un frutteto. Mentre i fratelli Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi si sentivano vittime di un’ingiustizia. E vessati da creditori, banche e tribunali. Per questo hanno trasformato la casa colonica in cui vivevano da sempre ed ereditata dai genitori in una bomba. Tutti e tre non sposati e senza figli, da due anni attendevano lo sgombero. La casa era stata pignorata, poi era cominciata la procedura esecutiva che avrebbe dovuto concludersi con l’asta di vendita. E invece grazie alle bombole del gas e alle molotov si è trasformata in tragedia. E loro adesso rischiano l’accusa di strage.
I tre fratelli Ramponi
I tre fratelli hanno cinque anni di differenza. Franco è nato nel 1960, Dino nel 1962, Maria Luisa nel 1965. Chi li conosce li descrive come «venuti giù dalla montagna»: «Erano strani. Come i loro genitori. I tre figli sono stati allevati senza rapporti con il mondo esterno. Solo i campi da coltivare e le mucche da mungere. Ne avevano trenta e le pascolavano di notte per evitare sguardi indiscreti. Tra i campi avevano anche sistemato un faro per lavorare senza la luce del sole. Si sentivano in guerra con il mondo. Nel casolare non c’erano né luce né gas. Nel novembre 2024 si erano già barricati in casa. Riempiendola di gas e impedendo lo sgombero. Per questo la procura aveva deciso di perquisirli per cercare armi.
Il frutteto
La storia comincia quando Franco Ramponi chiede al Credito Padano un mutuo di 70 mila euro per impiantare un frutteto nelle terre di famiglia. «I pagamenti delle rate del mutuo cessarono quasi subito e noi avviammo una procedura esecutiva», dice al Fatto Quotidiano Sandro Carra, avvocato che allora seguiva la banca. «Ramponi denunciò la perdita della carta di identità e uno scambio di persona, per sostenere di non aver mai firmato quel mutuo. Poi disse che la firma falsa l’aveva messa suo fratello. Tesi difficile da credere, sia perché parte di quel mutuo fu usata per pagare i suoi debiti, sia perché il notaio e la banca li conoscevano bene».
La firma “falsa”
Si tratta della stessa storia che Franco Ramponi raccontò all’Arena di Verona, segnalando che quella era la firma del fratello. E che nonostante il riconoscimento della falsità la procedura era andata avanti. «Il tribunale mi contesta di non essere rientrato da un debito fatto con la banca, ma che io non ho firmato. È stato mio fratello Dino ad accedere al prestito che non ha onorato, solo che ha firmato col mio nome, perché sono io il proprietario. Ci sono perizie calligrafiche che parlano chiaro: quella non è la mia firma». Tutto inutile. La banca vince la causa in primo grado. Poi cede i crediti a una società specializzata nel recupero.
L’incidente con il trattore
Qualche anno prima un incidente con un trattore guidato da uno dei fratelli causò la morte del camionista Davide Meldo. Il trattore era privo di luci e lampeggianti. Il 30 novembre Franco Ramponi aveva dichiarato che sarebbe andato in Comune a chiedere un alloggio temporaneo ed era preoccupato perché «la stima della casa e della stalla fatta dal tribunale è molto al ribasso». «Lottiamo da cinque anni per avere giustizia. Mio fratello ha avuto un pignoramento ingiusto, hanno portato via tutta la nostra azienda agricola e adesso vogliono la casa. Oggi volevano fare lo sgombero e noi ci siamo opposti in tutti i modi, abbiamo riempito la casa di gas», diceva la sorella Maria Luisa, accusata di aver appiccato il fuoco.
Via San Martino 22
La casa colonica si trova in via San Martino 22. Quel giorno Franco e Dino si erano barricati dentro mentre la sorella parlava: «Abbiamo riempito la casa di gas per riuscire a lottare. Sono cinque anni che lo facciamo contro gli avvocati che ci hanno rovinato. Cinque anni fa ci siamo trovati una firma falsa in un mutuo. Stiamo subendo calunnie di ogni tipo, non sappiamo più cosa fare, non abbiamo più nulla. Subiamo, subiamo… ci hanno portato via cose per un milione di euro di valore».
La casa dei Ramponi
«Ci è rimasta solo la casa e ora vogliono portarci via anche quella. Ma faremo di tutto…», la conclusione. Nel settembre 2021 uno di loro è salito sul tetto del tribunale di Verona. Minacciando di buttarsi giù. A Castel D’Azzano c’è chi sostiene che nemmeno andassero a fare la spesa: «Non si erano mai rivolti al Comune per chiedere aiuto. Erano chiusi in loro stessi, isolati», racconta al Corriere Elisa Guadagnini, sindaca del borgo.
«Siamo riusciti con un piccolo stratagemma, mostrando di incontrarla per caso, a intercettare Maria Luisa. La nostra assistente sociale è così riuscita a instaurare un rapporto di fiducia. Abbiamo tentato un rapporto di mediazione con le autorità che stavano seguendo la loro vicenda giudiziaria che li vedeva coinvolti e l’abbiamo invitata per un paio di colloqui». Ma niente: Maria Luisa è «rimasta sempre fredda, ferma sulla sua posizione, uguale a quella dei fratelli: ovvero non lasciare la loro casa». Fino alla strage.