Andrea Boraschi (T&E): «L’Ue investa sull’elettrico o diventerà un museo dell’auto. Biocarburanti? Inquinanti e inefficienti» – L’intervista

L’Ue è sempre più vicina a riscrivere le regole che regoleranno il settore dell’automotive. Entro fine anno, la Commissione europea presenterà la propria proposta per rimettere mano a quel regolamento, approvato nel 2023, che vieta a partire dal 2035 la produzione di nuove auto a benzina e diesel. Le difficoltà del settore — amplificate dai dazi americani, dagli alti costi dell’energia e dall’agguerrita concorrenza cinese — hanno spinto l’industria automobilistica a intensificare il pressing sulle istituzioni europee per chiedere un allentamento delle norme e più flessibilità nella transizione verso l’elettrico. Ma alle riunioni svolte in questi mesi a Bruxelles c’è anche chi ha insistito per spingere l’Europa nella direzione opposta, ossia quella di un abbandono ancora più rapido del motore a combustione. È il caso di Transport & Environment, principale associazione europea per la promozione della mobilità sostenibile. Andrea Boraschi è direttore per l’Italia del gruppo.
A che punto siamo davvero con la transizione verso l’auto elettrica in Europa?
«Nel 2025 le elettriche continuano a salire e oggi rappresentano poco più del 16% del mercato, mentre l’anno scorso erano al 13,1%. È una crescita significativa. Se guardiamo solo all’Europa occidentale, nei mercati più maturi, siamo addirittura al 20%: significa che un’auto su cinque tra quelle vendute è elettrica. Anche in un momento turbolento e di evidente incertezza, l’industria e il mercato continuano ad andare in una direzione piuttosto chiara. Qualsiasi car maker confermerebbe che il futuro dell’auto è elettrico. Le tensioni, piuttosto, si concentrano su quanto prossimo sia questo futuro».
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Di sicuro il passaggio all’elettrico si sta rivelando più lento di quanto ci si aspettava fino a pochi anni fa. Come se lo spiega?
«È vero, la transizione si è sicuramente rivelata più lenta del previsto, ma se facciamo un confronto con il 2019 abbiamo fatto un tratto di strada enorme. Stiamo parlando di una tecnologia che occupava qualche decimale dei nostri mercati dell’auto e che ora invece è oltre il 16%. Se osserviamo con un minimo di obiettività e smettiamo di ascoltare i pianti greci dell’industria, ci accorgiamo che il livello di espansione di questa tecnologia sul mercato è stato ampio».
Ma a cosa si deve questa transizione troppo lenta: è un problema di regole troppo rigide o di scarsa capacità di visione da parte delle aziende europee?
«L’industria dell’automotive si è concentrata su strategie di massimo profitto nel breve termine. Ha prodotto meno e si è concentrata sui segmenti premium, facendo ricavi da record ma senza reinvestire abbastanza. L’obiettivo del 2035 è previsto dal 2019 e questo significa che alle aziende è stato dato ciò che hanno sempre chiesto: un orizzonte normativo chiaro per garantire gli enormi investimenti che la transizione richiede. Credo ci sia stata una mancata preparazione».

In Italia la diffusione delle auto elettriche procede ancora più lentamente che nel resto d’Europa. Come se lo spiega?
«Abbiamo sbagliato tantissime cose. Fino a poco tempo fa, eravamo l’unico Paese europeo che offriva ancora incentivi per l’acquisto di auto endotermiche. Poi c’è il tema della fiscalità. Noi di T&E abbiamo fatto uno studio comparativo di tutte le leve fiscali sull’auto in vigore nei Paesi europei. Il risultato è che l’Italia è unico Paese in cui non esiste una singola leva fiscale parametrata alle emissioni di CO₂. Infine, c’è un tema di disinformazione istituzionale. Abbiamo un ministro dei Trasporti (Matteo Salvini, ndr) che fa campagne allarmistiche sulle auto elettriche che si incendiano. Sciocchezze di questo genere non se ne sono viste altrove».
I fondi per l’ultimo round di incentivi sono andati esauriti in meno di una giornata. Cosa dimostra questo?
«Il contrario di quello che una parte politica ripete da anni, ossia che le elettriche, in Italia, vendono poco perché non piacciono ai consumatori. Forse non piacciono a tutti i consumatori, almeno per ora, alla stregua di come, con la nascita dei primi personal computer, alcuni rimasero per anni fedeli alle macchine da scrivere. Ma quanti oggi usano la macchina da scrivere? Per chi ha davvero contezza di cosa sia un’auto elettrica, ossia un veicolo infinitamente più silenzioso, efficiente e meno inquinante, il paragone qui sopra non è così stravagante».
Perché il prezzo delle auto elettriche continua a essere elevato?
«Specifichiamo: elevato sui nostri mercati. In Cina ci sono ottimi veicoli elettrici a 10mila dollari. Ma le cose stanno cambiando significativamente anche qui: la parità di costo è più vicina, soprattutto grazie al calo costante e veloce del prezzo delle batterie, che stanno anche migliorando tecnologicamente. Pensiamo che nel 2019 il veicolo elettrico di segmento B più venduto in Europa, la Renault Zoe, costava 36.600 euro. Oggi l’auto elettrica di segmento B più venduta sui nostri mercati, la Renault R5, ne costa 24.900. E non è il modello più economico».
A dicembre la Commissione europea presenterà la sua proposta per ritoccare il regolamento sulle auto. Quali modifiche vi aspettate?
«L’industria vorrebbe abilitare i carburanti “carbon neutral”, ossia biocarburanti ed e-fuel, ma secondo le nostre stime questo ridurrebbe del 25% il potenziale di elettrificazione del regolamento europeo. Ricordiamoci che a capo della Commissione c’è Ursula von der Leyen, che ha fatto del Green Deal una bandiera del suo primo mandato. Noi pensiamo che cercherà di introdurre misure di flessibilità tali da non compromettere la capacità di indirizzare l’industria e i mercati. Detto questo, alcune flessibilità possono essere migliori di altre».
In che senso?
«Saremmo favorevoli a prevedere premi alle aziende con l’impronta carbonica dei veicoli più bassa, per esempio grazie all’impiego di acciaio e alluminio verdi. Lo stesso vale per i meccanismi che premiano la produzione di veicoli più piccoli ed efficienti. Nei primi anni Dieci, i Suv rappresentavano il 7% dei veicoli venduti, mentre oggi sono oltre il 50%. Le flessibilità peggiori sono soprattutto due: la prospettiva di puntare sulle ibride plug-in, che emettono cinque volte di più di quello che dice il libretto di immatricolazione, e l’abilitazione dei biocarburanti».
L’Italia è in prima fila nel chiedere l’apertura sui biocarburanti. Cosa non vi convince di questa soluzione?
«La criticità principale è che i biofuel oggi vengono miscelati con gli idrocarburi tradizionali in percentuali più o meno variabili. Di fatto, significa continuare a lasciare spazio ai combustibili fossili. Noi non ce l’abbiamo con il motore per qualche perversione ideologica, ma perché è una tecnologia con un’efficienza bassissima: di tutto il potenziale energetico che gli si dà in pasto, traduce in moto circa il 20-25% dell’energia utilizzata, mentre per l’elettrico le percentuali sono ribaltate. I biofuel davvero puliti sono estremamente scarsi e costosi. In più, si appoggiano su catene di approvvigionamento molto opache e confermano la nostra dipendenza energetica: Eni continua a ricevere soldi pubblici per convertire vecchi impianti in bioraffinerie, ma quasi tutte le biomasse utilizzate sono di importazione. Infine, i biocarburanti non risolvono il problema dell’inquinamento atmosferico».
Lo stop alle nuove auto a benzina e diesel del 2035 resterà oppure no?
«Noi ce lo auguriamo, perché è estremamente chiaro che il futuro dell’automotive è elettrico. Sicuramente saranno introdotte delle flessibilità nel regolamento, ma occorre vedere in che misura comprometteranno l’ambizione del regolamento e rallenteranno la transizione. Il punto non è se il 2035 diventerà 2037. Il punto è organizzare politiche coerenti e far sì che l’Europa non si trasformi in un museo dell’auto a motore».

Se dipendesse da voi, che cambi fareste alla politica europea sull’automotive?
«Confermeremmo gli obiettivi e faremmo almeno tre cose. Innanzitutto, una politica che impegni l’industria sulla produzione di massa, perché oggi ciò che manca è l’utilitaria elettrica. Due: fortissimo sostegno all’espansione e all’irrobustimento della filiera dell’elettrico. In altre parole: batterie, batterie, batterie. Terza cosa: cominceremmo a elettrificare partendo dalle flotte aziendali, che rappresentano circa il 60% dell’immatricolato annuo europeo e rimangono in possesso delle aziende per circa 3-5 anni. Questo significa che in breve tempo si creerebbe un ampio mercato dell’usato elettrico».
La concorrenza cinese sta creando forte preoccupazione in Europa. È giusto adottare un approccio più protezionistico?
«Può avere senso nel breve periodo, se nel frattempo non si rallenta sulla transizione. Ciò che stiamo facendo con i dazi è dare un po’ di respiro ai mercati domestici, esporre meno l’industria europea alla competizione cinese. Questo va bene, ma solo se usiamo questo tempo per cercare di recuperare velocemente quel gap».
Le recenti strette sull’export di terre rare e chip hanno riacceso i riflettori sulla dipendenza europea da materie prime e componenti cinesi. Come se ne esce?
«Innanzitutto, occorre precisare che le terre rare non vengono usate nei motori elettrici. Ma è vero che su tutti gli altri materiali, a partire dal litio, la Cina è in una posizione di controllo delle filiere. L’Europa ha possibilità di muoversi in maniera coordinata e il tema più critico è quello del riciclo. Uno dei grandi vantaggi della mobilità elettrica è che si tratta di un ciclo chiuso: di quello che c’è una batteria possiamo potenzialmente non sprecare nulla. Da qui a qualche anno, il fabbisogno estrattivo di materia prima sarà bassissimo se avremo un’industria del riciclo forte. Oggi, noi estraiamo la black mass dalle batterie al litio e la rispediamo in Oriente».
