Francesca Mannocchi e la sclerosi multipla: «La malattia e la guerra sono simili»

La giornalista Francesca Mannocchi è malata di sclerosi multipla. Oggi in un’intervista al Corriere della Sera parla di quando ha scoperto la malattia: «Di quel giorno mi è rimasto soprattutto il colore del linoleum della clinica privata e la glacialità del neurologo, che dopo essersi fatto pagare profumatamente una risonanza magnetica d’urgenza mi freddò senza neanche prepararmi un minimo alla diagnosi». I primi sintomi sono arrivati qualche tempo fa: «Una mattina mi ero svegliata che non sentivo metà del mio corpo. Decisi di fare una risonanza d’urgenza perché io e Alessio (il fotoreporter Romenzi, all’epoca suo compagno e padre del figlio Pietro, ndr) saremmo dovuti ripartire per l’Iraq perché seguivamo la guerra a Mosul».
Ma dove vuole andare nel suo stato?
«A esame fatto, visto che per ritirare i referti ci sarebbe voluta qualche settimana, chiesi al medico com’era la mia situazione, convinta che dietro quella sorta di indolenzimento diffuso non ci fosse niente di grave; e gli domandai se potevo partire tranquilla. Mi gelò con una domanda: “Ma lei dove vuole andare nel suo stato?”». A quel punto, racconta, «Alessio e io uscimmo dalla clinica e iniziammo a piangere. Dopo di allora non ho più pianto per anni». Spiega che la sua malattia e la guerra «sono simili. Negli ultimi anni, da quando ho fatto pace con la presenza della malattia nella mia vita, questa è diventata un nuovo strumento per guardare e raccontare le cose del mondo con linguaggi diversi: se ieri mi sarebbe bastato il solo reportage televisivo, oggi sento il bisogno per esempio del teatro per arrivare a un pubblico diverso».
Malattia e guerra
«La condizione di un malato e quella di una persona che vive dentro una guerra amplificano al massimo il bene e il male: quando stai bene, sei felicissimo; quando stai male, tristissimo», dice ancora a Tommaso Labbate.
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E ancora: «Tutte le volte che ho dato una risposta a questa domanda poi è successo qualcosa che me l’ha fatta cambiare. Nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, il papà di un ragazzo di quindici anni mi indicò un televisore acceso. “Guardi”, mi disse, “quel canale televisivo definisce mio figlio un terrorista e guardandolo ho scoperto che lo era”. Poi aggiunse: “Quella parola, terrorista, è auto-conclusiva, non provoca nessuna riflessione, dice di un essere umano che va arrestato o ucciso, punto e basta. Ma quella stessa parola non contiene il fatto che, se mio figlio è diventato un terrorista a quindici anni, lo si deve al fatto che per i precedenti quattordici, cioè per l’intero arco della sua esistenza, ha visto solo violenza, morti, funerali e foto dei martiri attaccate alle pareti. Se lo chiami ‘ragazzo che ha preso le armi’, qualche domanda te la fai; se dici semplicemente che è un ‘terrorista’, no”».
Il figlio Pietro
Il figlio Pietro, di nove anni, quando lei va in tv «sente quello che dico ma non può vedere le immagini. Soprattutto perché non voglio che veda la mamma in una situazione di pericolo. Nel quotidiano, poi, sono stata alla larga da quella sorta di pedagogia distorta che andava di moda quando eravamo bambini noi, del tipo “mangia quello che hai nel piatto perché i bambini in Somalia stanno morendo di fame”. Però una cosa c’è, ed è innegabile: quando vedi le mutilazioni dei bambini, quando incontri un bambino palestinese evacuato a Doha a cui mancano nove delle dieci dita e con quel dito vedi che cerca in tutti i modi di prendere una penna, ecco, quella è una cosa che segna un’incolmabile distanza tra te e il vicino di casa di Roma che si lamenta per il mal di testa o l’amica disperata per il traffico».
Il pianto
Mannocchi racconta che è arrivata al giornalismo «con le radio romane del mondo della sinistra radicale, da Radio Città futura a Radio città aperta, e poi attraverso l’esperienza del canale satellitare Nessuno Tv. Nel frattempo ho fatto altri lavori: dalla cameriera all’insegnante in un istituto in cui si facevano lezioni private ai bambini adottati da famiglie italiane». Nel frattempo, dal giorno in cui ha scoperto la sclerosi multipla, ha ripreso a piangere: «Sì, dopo sette anni ho pianto di nuovo». Per quale motivo? «Questo non glielo dico».
