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Cop30, l’esperta Eleonora Cogo: «Accordo al ribasso, ma la transizione energetica è avviata e non si fermerà» – L’intervista

25 Novembre 2025 - 16:36 Gianluca Brambilla
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La responsabile team finanza del think tank Ecco: «A un certo punto l'Europa stava per abbandonare il negoziato. Meglio un accordo debole che nessun accordo»

Per il ministro Gilberto Pichetto Fratin era «l’unica soluzione fattibile», per il verde Angelo Bonelli «un passo indietro gravissimo per il futuro del pianeta». L’intesa raggiunta nei giorni scorsi alla Cop30 – l’annuale conferenza sui cambiamenti climatici che quest’anno si è svolta a Belém, in Brasile – ha diviso gli osservatori. Nell’accordo finale c’è l’impegno da parte dei Paesi più avanzati a triplicare i fondi per l’adattamento al cambiamento climatico entro il 2035, portandoli fino a 120 miliardi di dollari.

Dall’altra parte, però, è stata accantonata l’idea di mettere nero su bianco una roadmap per affrancarsi una volta per tutte da carbone, petrolio e gas, principali responsabili del riscaldamento globale. «Il fatto che ci sia un risultato, per quanto debole, è comunque buono. La vera sconfitta sarebbe stata non averlo», spiega Eleonora Cogo, responsabile team finanza del think tank Ecco, in questa intervista a Open.

Il presidente brasiliano Lula ha promesso che quella di Belém sarebbe stata «la cop della verità». Ha mantenuto la parola?

«Direi che è stata la Cop delle dure verità. Da un lato, ha dimostrato che la cooperazione multilaterale sul clima avanza. Un fatto per nulla scontato, se consideriamo il contesto geopolitico. Dall’altro, lascia comunque l’amaro in bocca, perché non c’è stato un risultato forte sull’uscita dai combustibili fossili. La realtà è che si fa ancora molta fatica in questi contesti a produrre risultati ambiziosi. Detto questo, la transizione sta andando avanti in tutto il mondo, anche se non alla velocità auspicata. L’Agenzia internazionale dell’energia ci dice che già oggi gli investimenti in energia pulita sono il doppio rispetto a quelli in fonti fossili».

Nel documento finale della Cop30 non c’è alcuna menzione delle fonti fossili. È un passo indietro rispetto alla conferenza di Dubai del 2023?

«Non lo definirei un passo indietro, perché c’è un richiamo, seppur indiretto, a quella decisione del «transitioning away» presa a Dubai. Va detto, poi, che la discussione sulle fonti fossili non era prevista in agenda quest’anno. C’era una proposta della Colombia, che da mesi porta avanti questa iniziativa per definire una roadmap, ma non era prevista alcuna discussione su questo».

Cosa c’è di buono nella decisione finale della Cop30?

«Uno dei risultati più importanti è quello legato alla finanza per l’adattamento. Lo scorso anno, a Baku, si era definito un nuovo obiettivo globale di 300 miliardi di dollari entro il 2035 da destinare ai Paesi vulnerabili. Ora a Belem è stato definito un target più specifico sulla finanza per l’adattamento, che andrà triplicata entro il 2035. È importante perché oggi l’adattamento è fortemente sottofinanziato rispetto alla mitigazione, dove ci sono soluzioni competitive e tante iniziative private».

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EPA/Andre Borges | Il commissario europeo al Clima, Wopke Hoekstra, durante i negoziati alla Cop30

Il commissario europeo per il Clima, Wopke Hoekstra, ha tuonato sui social contro una delle ultime bozze dell’accordo. Il giorno successivo, ha comunicato con una certa freddezza il raggiungimento di un’intesa. Che ruolo ha giocato l’Unione europea durante i negoziati?

«L’Ue è partita un po’ tentennante, poi ha acquisito determinazione lungo le due settimane di negoziato. Negli ultimi giorni di conferenza, ha avuto un ruolo decisivo per opporsi a un risultato molto debole sul lato della mitigazione. Durante l’ultima serata di negoziati, ci sono stati momenti molto concitati, in cui sembrava che l’Ue potesse addirittura uscire in segno di protesta. Poi c’è stata qualche piccola modifica del testo ed è rimasta a trattare».

 L’Europa esce vittoriosa o sconfitta da questa Cop30?

«Di sicuro non esce vittoriosa, ma neanche sconfitta. Il fatto che ci sia un risultato, per quanto debole, è comunque buono. La vera sconfitta sarebbe stata non averlo».

Chi sono i vincitori di questa conferenza sul clima?

«I Brics sono i Paesi che hanno ottenuto di più da questo vertice. Sono rimasti uniti, nonostante ci siano visioni diverse all’interno del gruppo e delle singole delegazioni. Per il Brasile, per esempio, il presidente Lula e la ministra per l’Ambiente spingevano per risultato molto ambizioso, mentre la presidenza della Cop, che fa capo al ministero degli Esteri, si è tenuta più in linea alle posizioni dei Brics. Questi ultimi si muovono spesso insieme alla Russia e ai Paesi del Golfo, che da sempre si oppongono a qualsiasi obiettivo sull’uscita dalle fonti fossili».

Che ruolo ha giocato l’Italia?

«In un primo momento, l’Italia ha avuto un ruolo decisamente ambiguo: all’interno dell’Ue, l’Italia e la Polonia hanno frenato inizialmente sull’idea di una roadmap per l’uscita dai combustibili fossili. Poi, con il passare dei giorni, è stato trovato un accordo all’interno dell’Ue e l’Italia è rimasta coerente con la posizione europea. Sul fronte della finanza, l’Italia ha portato impegni concreti e ha proposto iniziative sull’adattamento, al contrario di altri Paesi europei che invece stanno riducendo i contributi per la finanza climatica».

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EPA/Andre Borges | Il presidente brasiliano Lula a una conferenza stampa per la Cop30

Gli Stati Uniti erano assenti dai negoziati di Belém, eppure la figura di Donald Trump sembra aver influenzato l’esito.

«Si stanno riaggiustando gli equilibri, a partire dal rapporto tra Usa e Ue. Storicamente, l’Europa ha sempre avuto posizioni più concilianti nei confronti dei Paesi vulnerabili alla crisi climatica, ma gli Stati Uniti sono sempre stati nostri alleati. Questo rapporto è venuto a mancare e si sente. D’altro canto, l’’assenza degli Usa ha portato più determinazione per arrivare a un risultato. Se la conferenza si fosse chiusa con un nulla di fatto, qualcuno a Washington avrebbe sorriso».

La Cina punta a dipingersi come capofila della transizione verde, ma ai negoziati non figura tra i Paesi che chiedono accordi più ambiziosi. Perché?

«La Cina gioca un ruolo ambiguo. Qualcuno pensava che potesse incidere per alzare l’ambizione degli sforzi per il clima, ma quelle aspettative sono state disattese. Il negoziato si basa su principi stabiliti trent’anni fa, che prevedono una serie di obblighi per i Paesi sviluppati, per esempio per contribuire finanziariamente alla transizione dei Paesi in via di sviluppo. La Cina, che non viene considerata un Paese sviluppato, si guarda bene dall’assumersi obblighi che ora non ha».

La prossima conferenza sul clima si terrà in Turchia. Cosa ci dobbiamo aspettare?

«Ci sarà una doppia presidenza. Da un lato ci sarà la Turchia, che ha la presidenza formale del vertice. Dall’altro c’è l’Australia, che guiderà i negoziati. Entrambi i Paesi hanno forti legami con l’industria fossile, ma l’Australia ha assunto posizioni più progressiste, anche alla luce di un’alleanza stretta con le piccole isole del Pacifico, che sono tra i Paesi più ambiziosi sul clima e rischiano di scomparire per l’innalzamento del livello del mare.

Di fatto, ci sarà una triangolazione fra Turchia, Australia e piccole isole. Vediamo chi imporrà la propria visione nei negoziati finali. Il tema dell’uscita dai combustibili fossili, in ogni caso, tornerà».

Foto copertina: ANSA/Fraga Alves | António Guterres, segretario generale dell’Onu, alla Cop30 di Belém, in Brasile

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