«Le violenze, il ricatto, lo stupro: vi racconto le mie nozze forzate in Bangladesh»

Il 17 dicembre 2024 Eva, nata a Rimini ma di origini bengalesi, sposa un uomo contro la sua volontà a Dacca. Alle nozze seguono violenze sessuali e psicologiche, privazione di ogni libertà, riduzione in schiavitù, umiliazioni, somministrazione forzata di farmaci. Poi riesce a tornare in Italia. E denuncia la sua famiglia. Ora, con il suo fidanzato bengalese-romagnolo, racconta la sua storia al Corriere della Sera.
Il futuro
Eva, 21 anni, sogna «un futuro fatto di scelte mie. Soltanto mie». Adesso, dice, «ho ricominciato a studiare per diventare operatrice del turismo. Ho ricominciato ad amare e a vivere». Mentre l’ultimo contatto che ha avuto con la madre «è stato l’sms che le ho mandato per dirle che non sarei più tornata a casa, mentre ero in auto con i carabinieri che mi avevano attesa all’aeroporto Marconi di Bologna per mettermi in salvo». La sua storia comincia come tante: «Nel novembre 2024 sono partita in buona fede con mia madre e con la mia migliore amica per il Bangladesh per andare a trovare la nonna ammalata. Ma quando sono arrivata, ho scoperto che il viaggio era stato organizzato per costringermi a sposare un uomo». Lo aveva visto «una volta, nel 2023. I miei me lo avevano presentato dicendo che gli sarebbe piaciuto lo sposassi».
Il ricatto
Dopo aver detto di no se l’è trovato nella sua casa a Dacca: «È successo tutto in fretta. Davanti al mio rifiuto hanno prima provato a corrompermi offrendomi regali e proprietà. Poi mi hanno insultata. Infine, il ricatto: se non accetti non tornerai mai più in Italia. Mi hanno tolto i documenti. A quel punto ho capito che non avevo scampo e ho detto sì. Sapevo che lui voleva venire a vivere e lavorare in Italia. Era la mia unica via d’uscita». A quel punto è andata a vivere «con lui e con i suoi in campagna, in un contesto di grande degrado: non c’era neppure il gas per cucinare. E lì mi hanno trattata come una serva».
Le violenze sessuali
Le violenze sessuali sono iniziate «subito. Lo avevo supplicato di non toccarmi, dicendogli che non ero pronta. Inutile. Tu ora sei di mia proprietà e farai ciò che voglio, mi diceva. Me lo dicevano anche i suoi genitori che dovevo concedermi. E anche i miei: mia madre piangeva perché dopo tre giorni ancora non avevamo consumato. Così, dal quarto giorno lui ha iniziato a stuprarmi.
Ogni notte. Per tre mesi. Volevano tutti che restassi incinta. Contava solo quello». Ma non è successo: «Per fortuna no. Ma il mancato concepimento è stato motivo di altre violenze. Dopo un mese mia madre mi portò da una ginecologa perché capisse “cosa c’era che non andava in me”. In me. L’ipotesi che non andasse qualcosa in lui non è stata considerata. Lì mi sono stati prescritti farmaci per tenermi calma, per la fertilità e per aumentare il mio desiderio. “A letto sei poco partecipe”, mi rimproveravano. È vero: ero paralizzata e piangevo».
La sua migliore amica
Anche la sua migliore amica «era stata obbligata a sposare uno sconosciuto a 14 anni. Con me ha rivissuto il suo dramma. Ma l’hanno minacciata, costretta a partire. Così sono rimasta sola: mi hanno tolto il telefono e chiusa in casa con due lucchetti». A quel punto l’amica ha chiesto aiuto a un centro antiviolenza. «Tiziana Dal Pra (femminista, fondatrice di “Trame di terra”, centro imolese che si occupa di nozze forzate, ndr ) ha preso in mano il mio caso. Insomma, alla fine, con l’aiuto di tanti soggetti e dei carabinieri di Rimini è stato organizzato il piano per il mio salvataggio». Poi è riuscita a tornare in Italia: «Mia madre, che soffre di una patologia, si era aggravata e doveva per forza tornare a Rimini per le cure. L’ho supplicata di portarmi con sé, tanto poi sarebbe arrivato anche quell’uomo. Così, prima che partissimo, i miei si sono premurati di comprare il biglietto per lui: ci avrebbe raggiunti».
La denuncia
All’aeroporto Marconi di Bologna ha trovato i carabinieri. «Sì. E dopo una settimana ho denunciato sia lei che papà, assistita dall’avvocata Monica Miserocchi. I miei sono ancora ai domiciliari». La sua storia è simile a quella di Saman Abbas: «Certo. Ho pensato a lei quand’ero prigioniera in Bangladesh. Ho temuto di morire anche io. E adesso, che sono al sicuro e ho riabbracciato il mio amore, penso ancora di più a lei: alla vita che avrebbe voluto ma non ha potuto avere».
