Sensibilità al glutine: quando è una questione di testa? Lo studio di Lancet

Il glutine continua a occupare un posto centrale nel dibattito sulla salute, molto oltre le cucine e gli scaffali dei supermercati. Per chi soffre di celiachia è un nemico reale e ben definito, da evitare rigorosamente per tutta la vita. Ma intorno a questa condizione medica certa si è allargata negli anni una zona grigia sempre più affollata: quella delle persone che, dopo i pasti, sperimentano gonfiore, dolore addominale, stanchezza o un malessere difficile da decifrare e finiscono per puntare il dito contro il glutine.
Una convinzione che spesso nasce dall’esperienza diretta, dal passaparola o da tentativi fai-da-te di esclusione alimentare, più che da una diagnosi. Così, mentre il confine tra necessità clinica e sensibilità percepita si fa sempre più sottile, il glutine è diventato il principale imputato di disturbi molto comuni e spesso sfuggenti. Ed è proprio in questo spazio di incertezza, tra chi deve eliminarlo e chi pensa di stare meglio senza, che si inserisce una nuova revisione pubblicata su The Lancet, pronta a rimettere in discussione cosa intendiamo davvero quando parliamo di sensibilità al glutine.
Glutine e intolleranza, l’origine del problema
Il glutine è un insieme di proteine presenti in cereali molto diffusi come grano, orzo e segale, e il suo impatto sulla salute cambia radicalmente a seconda delle persone. Nel caso della celiachia, una malattia autoimmune che secondo i dati aggiornati del Dipartimento Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’ Iss, interessa circa l’1% della popolazione nei Paesi occidentali, l’ingestione di glutine attiva una risposta immunitaria anomala: il sistema di difesa dell’organismo attacca l’intestino tenue, danneggiandone la mucosa e compromettendo l’assorbimento dei nutrienti. È per questo che, per i celiaci, eliminare il glutine non è una scelta ma una terapia: anche piccole quantità possono mantenere attiva l’infiammazione e causare danni nel tempo, anche in assenza di sintomi evidenti.
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In Italia la celiachia è una malattia autoimmune riconosciuta che colpisce circa l’1% della popolazione, con oltre 265 000 casi diagnosticati al 31 dicembre 2023 secondo la Relazione annuale al Parlamento sulla celiachia. Tuttavia, la stima complessiva suggerisce che potrebbero esserci circa 600 000 persone affette, molte delle quali non hanno ancora una diagnosi formale.
Gli altri tipi di intolleranze
Diversa è l’allergia al grano, molto più rara, in cui il problema non è il glutine in sé ma una reazione allergica mediata dal sistema immunitario, spesso rapida e talvolta grave, con manifestazioni che possono includere orticaria, difficoltà respiratorie o disturbi gastrointestinali immediati.
Più complessa e meno definita è invece la cosiddetta sensibilità al glutine non celiaca, una condizione riferita da una quota di popolazione che arriva fino al 10% secondo diverse indagini epidemiologiche. In questi casi i sintomi, gonfiore, dolore addominale, alterazioni dell’alvo, stanchezza, difficoltà di concentrazione, compaiono dopo il consumo di alimenti contenenti glutine, ma senza i marcatori biologici tipici della celiachia o dell’allergia.
Il problema è che questi disturbi sono molto comuni e si sovrappongono a quelli di altre condizioni gastrointestinali funzionali, come la sindrome dell’intestino irritabile. In assenza di test diagnostici specifici, il glutine finisce così per essere indicato come causa principale di un malessere reale, ma spesso difficile da ricondurre a un singolo componente dell’alimentazione.
Intolleranza al glutine, la revisione che spiega il ruolo del cervello
La revisione pubblicata su The Lancet parte da un dato concreto: esiste un gruppo numeroso di persone che, dopo pane, pasta o altri prodotti a base di grano, riferisce disturbi intestinali, gonfiore, dolore/crampi, diarrea o stipsi, sensazione di pancia “tesa”, e anche sintomi fuori dall’intestino come stanchezza marcata, mal di testa, difficoltà di concentrazione e quella che spesso viene chiamata “nebbia mentale”. In queste persone però non si trovano i segni tipici della celiachia e non è diagnosticata nemmeno un’allergia al grano: si tratta di ciò che in letteratura viene chiamata “sensibilità al glutine non celiaca”.
«Il punto è che», spiegano gli autori della revisione, «questa etichetta viene sostenuta finché resta basata su impressioni e tentativi personali; quando invece si prova a capire se è davvero il glutine a scatenare i sintomi, servono studi costruiti per evitare auto-inganni involontari». È qui che è entrata la sfida controllata “in doppio cieco” eseguita dal team di ricerca: ai partecipanti sono stati somministrati, in giorni diversi, alimenti indistinguibili tra loro per aspetto e gusto contenenti glutine oppure no. Né i pazienti né i ricercatori con il compito di raccogliere i sintomi risultavano a conoscenza di quale versione fosse stata data in quel momento.
Ridurre l’effetto psicologico
La procedura ha ridotto al minimo l’effetto, spesso determinante, delle aspettative (“oggi ho mangiato glutine quindi starò male”), riuscendo a valutare la reazione effettiva del corpo agli alimenti ingeriti. Proprio a questo punto, secondo la revisione, molte certezze appaiono sgonfiate: anche se circa il 10% degli adulti nel mondo si definisce “sensibile al glutine o al grano”, quando si passa ai test controllati solo una minoranza mostra sintomi specificamente attribuibili al glutine, con un intervallo tra il 16% e 30%. Inoltre, il documento insiste su un punto spesso sottovalutato: non è facile isolare “il glutine puro” nella vita reale, perché negli alimenti a base di grano convivono molte sostanze diverse.
Tra i principali sospetti ci sono i FODMAP, carboidrati fermentabili che, in persone predisposte, possono aumentare gas e distensione intestinale e quindi gonfiore e dolore. «Contrariamente con la credenza popolare, la maggior parte delle persone con NCGS non sta reagendo al glutine», afferma Jessica Biesiekierski, gastroenterologa e ricercatrice dell’Università di Melbourne, autrice principale della revisione . «I sintomi sono più spesso innescati da carboidrati fermentabili, da altri componenti del grano o dalle aspettative delle persone e dalle precedenti esperienze con il cibo. Questo non vuol dire che sia “tutto nella testa” di chi percepisce i sintomi, ma che il nostro cervello conta eccome nel modo in cui il corpo sente e amplifica ciò che accade nell’intestino».
La confusione con altri sintomi
La revisione porta inoltre un esempio molto concreto: nelle persone con sindrome dell’intestino irritabile (IBS) che credono di essere sensibili al glutine, si presentano reazioni simili quando ricevono glutine, grano o placebo. Questo, come spiegato dai ricercatori, non significa che stiano fingendo ma che la previsione del sintomo e l’attenzione alle sensazioni intestinali possono diventare parte del meccanismo che le rende più intense e più fastidiose. Per questo il team di ricerca propone una cornice diversa: «Sarebbe opportuno ridefinire il NCGS come parte dello spettro di interazione intestino-cervello più vicino a condizioni come la sindrome dell’intestino irritabile», spiegano nel documento, «piuttosto che un disturbo del glutine distinto».
Cosa cambia nella pratica clinica?
Da questa rilettura discendono conseguenze molto concrete, soprattutto sul piano clinico. Se non esistono biomarcatori affidabili e la sensibilità al glutine non celiaca resta, per definizione, una diagnosi di esclusione, il primo rischio è semplificare troppo: eliminare il glutine “a tappeto” può dare l’illusione di una soluzione, ma spesso non intercetta la vera causa dei sintomi. Non solo. Gli autori ricordano che togliere il glutine prima di aver escluso correttamente la celiachia rende più difficile, se non impossibile, arrivare a una diagnosi accurata; inoltre, una dieta senza glutine non necessaria può risultare nutrizionalmente squilibrata, più costosa e, nel lungo periodo, persino controproducente.
Per questo la revisione insiste su un percorso più rigoroso e graduale: valutazione clinica completa, esclusione delle patologie note, attenzione a componenti alimentari diversi dal glutine (come i FODMAP) e, quando indicato, un lavoro mirato sui disturbi dell’interazione intestino-cervello. In questo quadro entra anche il tema, spesso delicato, dei fattori psicologici e dei comportamenti alimentari: non come spiegazione alternativa che nega i sintomi, ma come parte integrante di un sistema in cui aspettative, attenzione al corpo e risposta intestinale si influenzano a vicenda.
È per questo che, secondo Biesiekierski, l’assistenza efficace dovrebbe combinare modifiche dietetiche personalizzate e supporto psicologico, evitando restrizioni inutili. Da qui anche l’appello a cambiare la narrazione pubblica: «Appare necessario allontanarsi dall’idea che il glutine è intrinsecamente dannoso» e investire invece in «strumenti diagnostici migliori, percorsi clinici più rigorosi e una comunicazione più accurata sulla salute dell’intestino».
Quando il “senza glutine” non serve: i rischi di una dieta non necessaria
Seguire una dieta senza glutine in assenza di celiachia o di un’allergia al grano non è un gesto privo di conseguenze. Il primo motivo è clinico: eliminare il glutine prima di essersi sottoposti alle analisi diagnostiche può rendere impossibile confermare o escludere la celiachia, perché i test sierologici e la biopsia intestinale richiedono che il glutine sia ancora presente nella dieta per dare risultati affidabili. Ma i rischi non si fermano qui. Dal punto di vista nutrizionale, diverse ricerche indicano che le diete senza glutine, soprattutto quando si appoggiano prevalentemente a prodotti confezionati, tendono a essere meno equilibrate di quelle che includono cereali contenenti glutine. L’analisi sulla composizione degli alimenti osserva che i prodotti senza glutine possono essere più poveri di nutrienti fondamentali, come ferro, folati e vitamine del gruppo B (presenti nei cereali con glutine), e spesso mancano di fibra, elemento chiave per la salute dell’intestino.
Un cibo più povero
La minore presenza di fibra è importante soprattutto perché cereali integrali come frumento, orzo e segale forniscono componenti che aiutano la regolarità intestinale e nutrono il microbiota, la popolazione di batteri benefici che vive nel nostro intestino. Una riduzione inconsapevole di questi nutrienti può favorire squilibri di peso, alterazioni del metabolismo e, in alcuni casi, aumentare il rischio di patologie cardiovascolari a lungo termine. Non meno rilevanti sono i micronutrienti come calcio, ferro, zinco, vitamine D ed E, spesso più difficili da assumere in quantità adeguate in una dieta priva di glutine non pianificata con attenzione. Anche studi osservazionali su persone che seguono una dieta gluten-free, con o senza celiachia, riportano deficit di micronutrienti come ferro, vitamina D, zinco e folati.
Un terzo aspetto riguarda composizione e qualità degli alimenti: per compensare la mancanza del glutine (che conferisce elasticità e consistenza all’impasto), molti prodotti senza glutine industriali usano farine con amidi raffinati e aggiunte di grassi o zuccheri per migliorarne il gusto e la texture. Questo può tradursi in un apporto calorico più alto e un profilo nutrizionale peggiore rispetto ai prodotti equivalenti con glutine, soprattutto se consumati in grandi quantità. Infine, c’è un elemento psicologico e comportamentale da considerare.
Le altre conseguenze
Una restrizione alimentare ampia e non motivata dal punto di vista clinico può aumentare l’attenzione ossessiva al cibo, generare ansia nelle situazioni sociali e spingere a interpretare ogni segnale fisico come “guasto” o “intolleranza”, anche quando non lo è. In un contesto in cui intestino e cervello sono in stretta comunicazione, questo può amplificare la percezione dei sintomi e finire per consolidare cicli di evitamento non necessari.
Per tutti questi motivi, gli esperti sottolineano l’importanza di un percorso diagnostico rigoroso e personalizzato prima di qualsiasi esclusione di categorie alimentari. Valutazioni mediche accurate, test specifici per la celiachia, esami per altri disturbi gastrointestinali e, se del caso, l’intervento di un dietista possono aiutare a costruire scelte alimentari equilibrate e basate sulle reali necessità individuali, evitando restrizioni inutili che possono indebolire la nutrizione generale.
Foto di Hermes Rivera su Unsplash
