Angela Merkel, paladina del multilateralismo al summit sull'(in)sicurezza mondiale

La Cancelliera tedesca è stata protagonista della Conferenza sulla sicurezza internazionale a Monaco, in Baviera. La sua difesa del multilateralismo è stata accolta da una standing ovation. Open ne ha discusso con Matteo Bressan, analista presso il Nato Defence College Foundation e direttore dell’Osservatorio per la stabilità e la sicurezza del Mediterraneo allargato

Nonostante non si tratti di un summit dove vengono prese decisioni vincolanti, le premesse erano di un vertice storico. Il documento fatto circolare prima del suo inizio parlava di una nuova fase nelle relazioni internazionali, del passaggio da un regime di politica estera in cui la priorità assoluta in Occidente era la lotta al terrorismo, a una nuova fase caratterizzata dalla competizione tra le superpotenze: Russia, Cina, Stati Uniti e anche l’Unione europea.


Una divisione evocata più volte nel corso della conferenza, anche dalla padrona di casa, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in un discorso molto applaudito ha ribadito l’importanza del multilateralismo, della cooperazione diplomatica per la risoluzione di crisi politiche, e ha evocato lo spettro dell’interferenza cibernetica russa negli affari politici europei tramite strumenti informatici. Uno spettro che, secondo Merkel, potrebbe nascondersi anche dietro alle recenti proteste ambientali in atto in Europa.


Il discorso di Merkel ha messo in risalto le divergenze che esistono tra gli alleati Nato, gli Stati Uniti da una parte e l’Unione europea dall’altra. I terreni di scontro con il vicepresidente americano Mike Pence, anche lui presente al summit, sono stati diversi: Merkel ha rimproverato gli americani per le critiche rivolte al settore automobilistico tedesco e europeo, considerato una minaccia per la sicurezza nazionale Usa.

Ha inoltre criticato l’approccio in politica estera dell’amministrazione di Donald Trump, che trascura i rapporti con gli alleati e prende decisioni senza consultarli. Per capire meglio l’entità di queste tensioni e delle nuove dinamiche geopolitiche che il summit è servito a mettere in risalto, ne abbiamo parlato con Matteo Bressan, analista presso il Nato Defence College Foundation e direttore dell’Osservatorio per la stabilità e la sicurezza del Mediterraneo allargato.

Quali sono gli spunti principali del summit?

La conferenza di Monaco ha confermato un trend di quelli che sono i punti di criticità all’interno della Nato tra l’amministrazione Donald Trump e i Paesi europei. Stiamo assistendo alla fine dell’ordine liberale nato dopo la Guerra Fredda che ha vissuto una fase d’entusiasmo tra il 1991 e il 2001, al quale è seguito un periodo in cui tutte le principali organizzazioni internazionali sono andate in grandissima difficoltà. Bisogna difendere il multilateralismo, ma anche rivedere gli strumenti e meccanismi su cui si regge il sistema internazionale, penso all’Onu per esempio

Uno di questi punti critici è la spesa Nato, fissata al 2% del Pil. In settimana il ministro della Difesa italiano Elisabetta Trenta ha chiesto di cambiare il modo in cui viene calcolato. Al summit si è parlato anche di questo.

Sono pochissimi i Paesi che raggiungono questa cifra. Il Ministro della Difesa chiedeva di tenere conto anche le spese legate al cybersecurity. E’ un’idea che ha una sua logica, perché parte dal presupposto che il tema non è strettamente di carattere militare. Quando si fa una riflessione sul 2%, bisogna anche tenere conto di altri fattori, come per esempio la partecipazione dei singoli Paesi alle missioni Nato e dell’Unione Europea

La cybersicurezza è un tema che è stato ripreso anche dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel nel suo intervento a Monaco. Che importanza ha e può avere a livello mondiale?

La guerra ibrida presuppone attività di influenza che viene fatta anche a livello informativo: non è tanto una guerra che si combatte con i mezzi convenzionale, ma si combatte anche nella rete e nel campo cibernetico. Che ci possano essere campagne per orientare alcune fasce dell’opinione pubblica, come è probabilmente avvenuto nelle elezioni americane, non mi stupisce. Il tema vero è lo scontro tra gli Stati Uniti e i colossi delle reti cinesi, come Huawei. Sappiamo tutti che c’è stata una tregua, una proroga di 3 mesi, nella guerra di dazi tra Stati Uniti e Cina. Questo confronto economico e finanziario potrebbe, un domani, spostarsi su un altro terreno, con gravi conseguenze anche per l’Unione europea

Gli ultimi mesi hanno visto un inasprimento dello scontro non soltanto tra Usa e Cina, ma anche tra Usa e la Russia. Pensiamo per esempio all’uscita temporanea dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). È troppo tardi per fare un passo indietro?

È evidente che c’è preoccupazione da parte degli europei di non avere più questo accodo, in termini di sicurezza in generale. Donald Trump ha un approccio da negoziatore che ha ben poco del diplomatico quindi la sua uscita non vuol dire di chiusura in assoluto, potrebbe voler dire un tentativo di ri-negoziare un nuovo accordo

Più definitiva la chiusura – e lo scontro – sull’Iran e sulla Siria. Angela Merkel ha ribadito la decisione dell’Ue di rispettare l’accordo sul nucleare con l’Iran e si è lamentata con gli Usa per la decisione di uscire dalla Siria.

Anche in questo caso la porta rimane aperta. Se ricordiamo bene la dichiarazione di maggio in cui annunciò l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sull’Iran, Donald Trump lasciava aperta un opzione di dialogo.

Poi all’interno dell’amministrazione ci sono varie sensibilità differenti: il Consigliere Bolton è uno dei falchi pronto a tenere sotto pressione l’Iran ma anche a rafforzare una forma di Nato araba che qualcuno pensava potesse prendere forma in settimana al Forum di Varsavia.

Però credo che Trump, in un modo confuso, voglia comunque riportare l’Iran al tavolo dei negoziati. Per quanto riguarda la Siria, l’uscita degli Stati Uniti lasciano sicuramente un vuoto alla Russia e l’Iran, come ha rimarcato Angela Merkel. Ma il caso dell’Afghanistan è molto più grave.

È evidente che senza gli Stati Uniti gli alleati non possono restare in Afghanistan, perché nella forza di più di 20 mila uomini, circa 15 mila sono americani. Siamo in una fase in cui i valori di un’alleanza economica e militare non si possono scardinare soltanto con una logica di budget

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