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«Dio, patria, famiglia»: la storia dell’uomo dietro lo slogan (fascista)

11 Marzo 2019 - 14:43 Redazione
Il motto è rimbalzato sui social dopo che Monica Cirinnà si è fatta fotografare con un manifesto che riportava questa frase «Dio, patria, famiglia. Che vita di merda» e dopo che la foto è stata condivisa da Matteo Salvini su Twitter, con tanto di fotomontaggio con tre politici Pd. Cirinnà ha sottolineato che si trattava di una frase di origine fascista. Ma chi è l'autore?

Nella sua versione originale la frase non era certo accompagnata dell’esclamazione «Che vita di merda», come nel caso del cartellone esposto da Monica Cirinnà che ha finito per scatenare una polemica sul significato non solo del suo gesto ma anche della frase. La triade in epoca moderna è stata un’idea cardine dell’ideologia fascista, poi ripresa e riproposta sotto nuove forme da partiti di estrema destra come, appunto, la Destra di Francesco Storace, il partito fondato nel 2007 e sopravvissuto per un decennio. Monica Cirinnà ha spiegato che il gesto non voleva essere una critica né alla Chiesa, né alla patria, né alla famiglia, ma al disegno di legge del senatore leghista, Simone Pillon: «Con quella foto ho denunciato la ripresa di uno slogan fascista, criticando chi di quei tre concetti si fa scudo per creare un clima di discriminazione, oscurantismo e regressione culturale». Un motto fascista dunque che, secondo la senatrice del Pd, usa dei valori positivi, come l’attaccamento alla famiglia e alla propria società, per propagare messaggi di odio, invocando un concetto di normalità inesistente: in epoca fascista la difesa della famiglia era accompagnata dalla criminalizzazione dell’omosessualità, l’attaccamento alla patria dalla xenofobia e via discorrendo.

L’origine dello slogan

Ma quando nasce esattamente lo slogan? Il giornalista Bruno Vespa, nel suo libro C’eravamo tanto amati, attribuisce la frase al gerarca fascista Giovanni Giuriati (Vespa sottolinea come nonostante le sue molte amanti il Duce ritenesse la famiglia essere sacra). Giuriati l’avrebbe coniata nel 1931, quando all’epoca era segretario del Partito nazionale fascista. Il motto ideato da Giuriati, così come appare nella rivista di propaganda Gioventù Fascista, pare essere stato semplicemente «Dio e Patria. Ogni altro affetto, ogni altro dovere vien dopo». Quindi, teoricamente, prima anche dell’affetto per la famiglia. Secondo questo credo, il suddito italiano si sarebbe dovuto annullare per il proprio Stato e per Dio. Una concezione totalitaria dell’identità, ritenuta però di gran valore pedagogico tanto da essere inclusa in un decalogo indirizzato ai giovani, accompagnato da richiami all’ordine, alla disciplina, all’ubbidienza e al sacrificio per la patria e per il Duce.

Chi era Giovanni Giuriati?

Giuriati era stato un fascista della prima ora, iscritto ai fasci di combattimento nel 1919, diventato deputato del Partito nazionale fascista nel 1921, presente alla marcia su Roma l’anno successivo. Prima ancora aveva partecipato alla missione irredentista di Gabriele D’Annunzio a Fiume. Tutto ciò nonostante fosse cresciuto in una famiglia di sinistra durante gli anni della belle époque dell’Italia liberale. Nell’arco della storia del ventennio fascista ha ricoperto varie cariche importanti, tra cui la presidenza della Camera dei deputati. Poi è stato segretario del Partito fascista, ministro dei Lavori pubblici e senatore dopo il 1934. Autore di alcuni libri, Giuriati era stato chiamato, insieme ad altri notabili fascisti come Filippo Tommaso Marinetti e Italo Balbo, a rivolgersi ai giovani dalla tribuna della rivista Gioventù Fascista.

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