Pil al palo, record di inattivi e disoccupazione giovanile: il report dell’Europa sui mali italiani

Un nuovo rapporto della Commissione Europea colloca l’Italia al penultimo posto per tasso di occupazione, al secondo per la disoccupazione, all’ultimo per tasso di attività. Perché non ha senso continuare a proporre soluzioni a breve termine

Unico paese in cui il PIL non cresce, all’ultimo posto per tasso di attività, al secondo per disoccupazione giovanile. Sono solo alcuni dei dati che emergono dall’ultima edizione del report della Commissione Europea su “Employment and Social Development” aggiornato all’ultimo trimestre 2018. Sono dati che spesso ritornano e ai quali ci siamo tristemente abituati e silenziosamente rassegnati, ma che fanno una certa impressione se raccolti tutti insieme in un unico documento.


Ma soprattutto ci riconsegnano uno scenario molto preoccupante di fronte al quale non possono esistere soluzioni concrete che non si proiettino in un arco temporale di alcuni decenni. Ma questo sarà più chiaro passando in rassegna i dati aggiornati contenuti nel rapporto.


Ci sarebbero diversi dati che raccontano del rallentamento dell’Italia negli ultimi mesi e che l’hanno portata ad essere l’unico Paese europeo con crescita del PIL negativa nel quarto trimestre 2018 e uno dei cinque paesi con crescita dell’occupazione negativa. Di questo però si è detto molto, sono più interessanti i dati che dipingono non gli ultimi aggiornamenti, ma situazioni più croniche.

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Pochi occupati, Italia al penultimo posto

Il primo riguarda il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni, ossia il numero di persone che lavorano all’interno della forza lavoro in quella fascia d’età. Una fascia d’età che non considera la fetta più giovane del mercato del lavoro, quelli tra i 15 e i 20 anni. Il tasso è al 63%, al penultimo posto, peggio di noi solo la Grecia con il 60%.

La Spagna, Paese con il quale ci paragoniamo spesso e che ha avuto sempre dati simili ai nostri, ci stacca ormai di 4 punti. Ma basta considerare la media europea, che è al 73%, per capire quanto siamo distanti. Per non parlare di paesi come la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra dove il tasso è intorno all’80%.

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Secondo posto per numero di disoccupati

Sulla disoccupazione invece ci spetta il terzo posto con il 10,5%, prima di noi la Spagna e la Grecia. 10,5 persone su 100 appartenenti alla forza lavoro che cercano un lavoro e non lo trovano, quindi. Con l’aggravante che se in Spagna il tasso di disoccupazione è sceso dal 16,4% al 14,1% nell’ultimo anno in Italia solo dello 0,5%.

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Se consideriamo invece solo la disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni siamo al secondo posto con il 32%, leggermente davanti alla Spagna. E soprattutto siamo ancora al livello del 2012, anno di profondissima crisi. A riprova del fatto che se c’è una categoria di lavoratori che non ha beneficiato pienamente della ripresa occupazione è proprio quella dei giovani.

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L’esercito degli inattivi

Ma il dato peggiore di tutti è quello sul tasso di attività tra i 15 e i 64 anni. Si tratta della somma tra le persone che lavorano e di quelle che cercano attivamente un lavoro, in Italia sono il 66% della forza lavoro e siamo all’ultimo posto in Europa che ha una media del 74%. Perché è così grave? Semplicemente perché dal tasso di attività deduciamo l’opposto: quello di inattività.

Su 100 persone in età da lavoro ben 36 non lavorano e non cercano attivamente un lavoro, sono inattivi. Un numero enorme che ha conseguenze altrettanto enormi in termini di contributi sia per l’assistenza e la previdenza, sia per la fiscalità generale.

Le sfide per politica ed economia

Tutto questo ci porta auna considerazione tanto semplice quanto radicale. L’Italia è e continua ad essere il grande malato d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro. Malattia che arriva da lontano, che ha cause storiche, e che non può essere guarita in poco tempo.

E soprattutto non può essere guarita con medicine leggere, servono cure drastiche che, intervenendo subito, sappiano guardare al lungo termine. Smettere di guardare all’insieme dei problemi, concentrandosi su aspetti marginali che intercettano qualche voto nel breve periodo, è il torto maggiore che si può fare alle nuove generazioni.

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