Izi, il rap e il diabete: «La malattia mi fa impazzire ma da quella pazzia nasce la mia musica»

Classe 1995, una vita fatta da tante vite. Rapper tra le strade di Genova, vagabondo e attore per il grande schermo. Ora è pronto a tornare sulla scena con «Aletheia», il suo nuovo album

Fogli di cellophane alle pareti come in Dexter. Un uomo con una tuta gialla che traffica con sostanze blu come Breaking Bad. Pillola rossa o pillola blu da scegliere come in Matrix. La location scelta da Izi per la presentazione del suo nuovo album è uno spazio tra le cantine di un palazzo da qualche parte nella periferia est di Milano. Trasformato in un ambiente che pesca da immaginari provenienti da film, musica e serie televisive. 


Il titolo dell'album è Aletheia, la parola greca che vuole dire verità. È pubblicato da Island record e Universal. 16 tracce che arrivano dopo Fenice e Pizzicato, album del 2016 e del 2017. Ma arrivano anche dopo anni di singoli, riflessioni e anche malattia. Perché Izi, Diego Germini classe 1995, ha il diabete. Non lo ha mai nascosto, dall'inizio. Tanto che nella copertina di Fenice, il suo primo album lo si vede a torso nudo, con attaccato sulla pancia il dispositivo per monitorare i livelli di glicemia.


Nel 2016 il suo volto inizia ad apparire fra locandine, grandi schermi e promozioni pubblicitarie. Ma non per il rap. O meglio, non solo. Il regista Cosimo Alemà lo sceglie come protagonista per Zeta, un film ambientato nella scena rap italiana. La pellicola aveva destato parecchio interesse per la collaborazione di molti cantanti, da Ensi a Shade, passando per Fedez, J-Ax, Clementino, Rancore e Tedua. Da segnalare Metal Carter nella parte di un paninaro e Salvatore Esposito, l'attore che interpreta Genny in Gomorra, nella parte del rapper Sante.

Partiamo dal disco. Lo hai intitolato Aletheia, verità. Questo termine conta molto nel rap. Essere vero, raccontare cose vere è una delle bandiere di questa musica. Qual è la tua verità?

«Non credo sia una domanda a cui posso rispondere. "Aletheia"" vuol dire verità ma acquisisce molteplici significati. Per me è il momento stesso in cui arriva l'illuminazione e vieni sciolto, non sei neanche tu. Non te lo so dire. Analizzo tantissimo. Quello che vedo dentro di me e quello che vedo fuori».

Come sei arrivato a questo titolo?

«È un parola che anni fa ho appreso da mio padre, lui ha una cultura molto classica. Non so come mai mi è rimasta in testa questa cosa. Volevo dare un titolo che avesse a che fare con il “vero”. È un termine per me slogan. Puoi darci tu la tua interpretazione. Vorrei che la gente ascoltasse questo disco e dicesse cos'è per loro "Aleltheia"».

Luci soffuse, musica nelle cuffie e una stanza con pareti nere. L'esperienza di ascolto dell'album che hai fatto fare ai giornalisti e ai tuoi fan sembra molto vicina alla meditazione.

«La mia meditazione sono le mie crisi epilettiche. Da quando ho iniziato ad avere il diabete ho cominciato ad avere problemi fisici. Il mio corpo viene mandato in alterati stati di coscienza e io apprendo cose. Non conosco altri metodi. Non sono io che vado a cercarmi cose. È la vita che mi mette davanti esperienze fuori dal comune».

Quanto tempo ci hai messo a scrivere l'album?

«I miei album sono sempre una raccolta di situazioni, pensieri, botte varie che la vita mi riserva. Questo album viene da una selezione di cento pezzi. È stato bello cercare di prendere in mano la situazione. Sono davvero tante esperienze che mi hanno portato a mischiare tutte queste cose. C'è un motivo a tutto lì dentro».

Il tuo flow è molto particolare, molto cantato. Le parole nelle tue canzoni sembrano concatenate, quasi a formare melodie dove conta di più la musicalità dei concetti espressi. Quanto è una scelta stilistica e quanto  ti viene naturale?

«Io non sono io. Non so cosa succede quando scrivo. Non voglio tarparmi le ali. Come nel gioco pirandelliano delle maschere, non sono mai da solo. Ci sono tante parti di me. Alcune volte le faccio comunicare, altre volte no».

Tra i brani dell'album, quale ti sembra più tuo?

«Forse non per il testo, ma come ambiente musicale sicuramente Pace. Perché adesso mi sento in quella situazione lì. Un po' da Stranger Things. E poi Dolcenera».

Izi, il rap e il diabete: «La malattia mi fa impazzire ma da quella pazzia nasce la mia musica» foto 1

Foto Alessandro Treves |La copertina di "Aletheia"

Dolcenera è una traccia che parla di Genova. Perché ti sei ispirato a Fabrizio de Andrè?

«Ho scelto di ridare aria, o forse, acqua a quel pezzo. Non volevo farlo uscire, avevo paura di bestemmiare. Ma ho trovato forza nei collaboratori che mi hanno consigliato di pubblicarlo. Questo pezzo l'ho fatto per la mia Genova e per le alluvioni che stanno continuando. Fino a che non si puliranno i torrenti, a Genova il problema rimarrà».

Tu le hai vissute queste alluvioni?

«Sì due le ho vissute e sinceramente mi gira il cazzo che non si cambi niente. Acqua come sensazione, come sentimento, come annegare. Nero come il denaro, la sporcizia italiana. "Nera che picchia forte, che butta giù le porte", come la polizia. Ci sono tante tracce che sviluppano questo testo. Io l'ho scritto dopo il crollo del ponte Morandi. Anche Dori Ghezzi mi ha detto che ama il brano, per me è stato un grandissimo onore».

Genova torna molto nelle tue canzoni. È una città che non ha una tradizione rap come Milano. Sembra che qui la scena l'abbiate creata tu e Tedua con il collettivo Wild Bandana.

«Non lo so. Esisteva una scuola di Genova, non l'abbiamo portata noi. Nomi poco conosciuti, magari fuori dalla città ma che sono stati essenziali nel nostro percorso. Noi siamo i primi ad esserne usciti e sembra che siamo noi che abbiamo creato tutto».

Cosa dà Genova al tuo rap?

«Non avrei rappato così se non fossi stato di Genova. Il proletariato, la povertà, il fiore nel cemento. Ha una forza enorme. Si lamenta spesso ma si sa alzare. Genova è tante cose. Sedermi su un autobus di questa città e farmi una tratta di 15 minuti mi faceva scrivere un pezzo. C'era così tante cose da dire. I pazzi, gli ubriaconi le prostitute».

Izi, il rap e il diabete: «La malattia mi fa impazzire ma da quella pazzia nasce la mia musica» foto 2

Foto Alessandro Treves |Izi

All'inizio della tua carriera, dopo che avevi inciso i primi tre mixtape è arrivato Zeta, un film sul mondo del rap in Italia in cui hai recitato come protagonista. 

«Sì, io ero molto provinciale. Quel film mi ha permesso di fare il botto, anche se in un ambiente che non era il mio. Poi ho fatto il mio percorso. Ho preso tantissimo da quel film, come l'ho odiato tanto».

Non è stato un po' rischioso accettare un ruolo del genere? Avevi la parte di un giovane rapper che cerca di sfondare, proprio quello che eri tu fuori dallo schermo.

«Sì ma non lo sapevo. Io volevo solo portare i soldi a casa di mia madre».

Torneresti al cinema?

«Sì, ma come regista, più che attore. Per adesso ho curato la regia dei miei video».

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Foto Alessandro Treves |Izi

Quanto ti ha dato e quanto ti ha tolto la tua malattia nella tua musica?

«Siamo lì. Come mi fa impazzire, da quella pazzia nasce la mia musica. Vivo in una custodia che è bella sotto stress. Ora devo cercare di raddrizzarmi sotto quel punto di vista».

A 17 anni sei andato via di casa e hai iniziato un periodo di vagabondaggio. Ne parli in Chic e dici: «Non sei come me, non hai dormito in stazione con me». Ora lo rifaresti?

«Al momento non posso farlo. Per il lavoro e perché non sto bene a livello fisico. Ma vado molto fiero di essere un vagabondo. Questa cosa mi faceva scrivere tantissimo. Cambiavi abitudini ogni minuto. Fisicamente, però, mi ha debilitato tanto».

Dove sei stato in quel periodo?

«Sono scappato verso i 17 anni. Ho mollato scuola e altre cose e lì è iniziato tutto. Molto a caso».

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