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Nike, il «Just do it» negato alle donne: niente sponsor per le atlete incinta. La denuncia di Alysia Montano

La campionessa statunitense degli ottocento metri ha rivelato al «New York Times» come l'azienda di abbigliamento sportivo le abbia chiesto di scegliere: o la gravidanza o il compenso, negandole un congedo di maternità

«Just do it», «Sogna in grande», «Ma una donna che correva una maratona era pazza. Una donna boxeur era pazza. Una donna che faceva canestro, pazza. Una che allenava una squadra NBA, pazza. Una che gareggiava con l’hijab, che cambiava il suo sport, che atterrava con un “double cork 1080°”, che vinceva 23 “grand slam”, avendo un bambino, e poi tornando a vincere ancora. Pazza, pazza, pazza, pazza e ancora pazza. Quindi, vogliono chiamarti pazza? Ottimo. Mostra loro cosa può fare un pazzo». A febbraio Nike ha lanciato il suo nuovo video promozionale, un inno alla forza d’animo delle donne per invitarle a non smettere di sognare in grande, ad essere pazze. Un messaggio scandito dalla tennista Serena Williams per abbattere pregiudizi.

Ma dietro al video incoraggiante si nasconde una realtà molto diversa. Mentre da un lato l’azienda di abbigliamento sportivo ha spinto per anni le atlete a non avere paura, dall’altra ha chiuso le porte in faccia a chi aveva scelto di essere, oltre che un’atleta, anche una madre. È la denuncia di Alysia Montano che in una recente intervista al New York Times ha parlato del trattamento discriminatorio ricevuto dalla Nike. Quando nel 2014 la otto volte campionessa nazionale degli ottocento metri e bronzo ai mondiali di Taiwan del 2011 rimase incinta, e si presentò ai campionati nazionali in pista con il pancione alla 34esima settimana di gravidanza, la sua foto fece il giro del mondo tanto da essere rinominata “wonder woman”. Ma mentre veniva celebrata dai media come una super donna, dietro le quinte, fuori dai campi di atletica Nike la poneva davanti a una scelta: «o la maternità o lo stipendio». A differenza di quanto avviene in sport quali il basket, il calcio o la pallavolo, i campioni di atletica leggera devono contare sul sostegno economico degli sponsor.

O il contratto o il bambino

«Anni fa», rivela Montano, «quando comunicai ai manager Nike di voler avere un bambino mi risposero: “fallo e noi bloccheremo il tuo contratto”». Il che equivale a una perdita di compensi, e a un congedo di maternità non pagato. Nel 2014 e nel 2017 Montano ha dovuto scegliere tra l’avere un bambino e l’avere un contratto, da qui la volontà e la necessità di correre fino all’ottavo mese di gravidanza: «Volevo mostrare alle persone che si poteva essere madri e continuare ad avere una carriera di successo. E fare esercizio fisico mentre sei in cinta fa bene al bambino». Una situazione confermata anche da Phoebe Wright, specialista degli 800 metri, legata a Nike dal 2010 al 2016: «Rimanere incinta è il bacio della morte per una donna atleta. Se fossi incinta certamente e non andrei a dirlo alla Nike», ha sottolineato Wright. Una discriminazione che arriva anche dal comitato olimpico degli Stati Uniti che priva le atlete dell’assicurazione sanitaria se nelle loro gare non continuano a raggiungere piazzamenti alti. 

«Quando sono tornata dopo la maternità mi minacciarono ancora di togliermi lo sponsor. Ho ricominciato ad allenarmi, non erano sicuri che sarei riuscita a tornare ai livelli di prima e gli ho dimostrato che si sbagliavano». «Nike ci dice di sognare in grande», continua Montano, «invece sarebbe meglio se smettesse di trattare la gravidanza come un infortunio». In questi anni, dal suo ritorno alle gare dopo la gravidanza, Montano si è battuta per garantire alle atlete un congedo di maternità: «Se provano a sminuire la tua gravidanza ricordategli cosa ci hanno sempre detto, che i grandi atleti non si tirano mai indietro, che i grandi atleti vanno oltre i limiti di cosa è possibile. Siamo noi a decidere quali sogni sono irraggiungibili e quali hanno perfettamente senso».

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