Il boomerang di Salvini: niente espulsione per Carola e rischio di processo per averla chiamata “criminale”?
Dopo le durissime parole di ieri sera e il bellicoso annuncio di espulsione, questa giornata rischia di essere poco piacevole per il ministro dell’Interno nella sua guerra personale contro la capitana della Sea Watch.
«Ha solo cercato di ammazzare cinque militari italiani», ha contestato Salvini nella diretta Facebook subito dopo la pronuncia del Gip di Agrigento Vella, totalmente favorevole alla operatrice della Ong tedesca.
E su Twitter ha scritto: «Nessun problema: per la comandante criminale è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la Sicurezza nazionale. Tornerà nella sua Germania, dove non sarebbero così tolleranti con una italiana che dovesse attentare alla vita di poliziotti tedeschi».
E in effetti ieri sera il prefetto di Agrigento ha firmato un provvedimento di espulsione per Carola Rackete. Ma questo sarà valido solo se controfirmato dal magistrato della città siciliana, il che non accadrà. Le parole del Gip sono molto nette e costituiscono l’ultima parola fino a questo punto sulla condizione della Rackete, che oltretutto è cittadina comunitaria, il che imporrebbe la sua espulsione solo in caso di gravi comportamenti sanzionati da un giudice.
Inoltre è stata la stessa magistratura siciliana ad aver richiesto di interrogarla tra sei giorni per l’altra ipotesi di reato per cui è indagata: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La capitana Carola è quindi in questo momento nelle condizioni opposte rispetto a chi viene espulso, perché è interesse della giustizia italiana che rimanga nel nostro Paese.
E il tentativo di «ammazzare cinque militari italiani»? E la qualifica di «criminale»? Qui è Salvini, che da ministro ha un ruolo ufficiale, a rischiare: attraverso gli stessi canali giudiziari la destinataria delle sue accuse potrebbe chiedergliene conto. In uno Stato di diritto non si può dare pubblicamente del criminale o accusare di tentato omicidio senza riscontri probatori.
E soprattutto non può proprio farlo il ministro dell’Interno, a meno di trincerarsi dietro l’insindacabilità delle sue affermazioni, perché parlamentare. Ma in quel caso l’ultima parola poi toccherebbe al Senato, come avvenne nel caso della nave Diciotti.
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