Procreazione assistita, i racconti delle donne che ci hanno provato, tra l’Italia e Barcellona

Elena, Claudia, Giusy, Maddalena e Roberta: tra Spagna e Italia, i racconti di donne diventate mamme grazie alla procreazione medicalmente assistita

«Abbiamo davvero diritto tutti ad avere dei figli?». Sofia sorseggia il suo vino rosso, mentre una miracolosa brezza si solleva su Borgo Pio e la sera allontana il ricordo della giornata di cappa afosa che ha attanagliato Roma. «Voglio dire: io ci ho pensato ad avere un figlio da sola, a un certo punto». E si è anche informata, incappando per esempio in una famosa banca di donatori danese, la Cryos international bank: altre donne me la nomineranno, in questo viaggio attraverso le storie di chi ha anche solo pensato di accedere a tecniche di procreazione assistita. 


«Per massimo 500, 600 euro ti arriva a casa il seme. Puoi scegliere tra i donatori, vedere le loro foto. E puoi farlo in economia, insomma. Ma poi a quel figlio cosa dirò?», dice Sofia.


Il sistema danese, infatti, non è anonimo: i figli, alla maggiore età, possono decidere di cercare – e trovare – il padre. «Ma non è quello il problema», dice Sofia con un’alzata di spalle. «Il punto è: cosa dico io a quel figlio che verrà? Che mamma ha scelto il seme su un portale on line? E cosa gli diranno a scuola?». 

Claudia, Barcellona

«Semplicemente, non ci sarà nessun padre». Claudia – il nome è di fantasia – si tormenta le mani, dita affusolate e unghie rosso fuoco, mentre racconta la sua storia. Anche lei, che per arrivare a veder nascere quella bimba che ora tiene in braccio ne ha passate tante, è incappata nel suo peregrinare nel portale danese. «Avevo già avuto esperienze negative con vari istituti qui a Barcellona. Allora ho consultato anche quello. Ma poi ho visto che la donazione non sarebbe stata anonima e ho lasciato perdere». 

Claudia ha iniziato a cercare di rimanere incinta 4 anni fa: oggi ha 45 anni ed è una mamma single felice. «A quei tempi avevo un compagno», racconta. «Sono andata prima di tutto in un istituto molto noto qui a Barcellona. Ma non mi è piaciuto: ogni volta parlavo con un medico diverso. E ti trattavano come se stessero vendendo… Non saprei. Biscotti? Non gliene fregava niente». 

Claudia ha una serie di allergie, avverte i medici, ma i medicinali che cominciano a darle le provocano gonfiori e fastidi fin dal primo tentativo. «Ogni corpo reagisce in modo diverso, dovrebbero tenerne conto» dice. E poi attese infinite in clinica, esami su esami, la quadra che non si trova. «Il primo trattamento è durato un mese»: due settimane di stimolazioni ormonali, poi l’estrazione dell’ovulo, la fecondazione in vitro con lo sperma del compagno.

E il trasferimento dell’embrione in utero: «attenzione: il prezzo cambia se si decide di fare il transfer dopo 2-3 giorni o dopo cinque. Ma nelle cliniche non te lo dicono mai chiaramente fin dall’inizio». Claudia paga 10mila euro, «ma il prezzo dipende dalla clinica. P uoi trovare anche a 5mila euro, ma di quelli mi fido meno». 

La Sagrada Familia, Barcellona/Angela Gennaro

Già, il prezzo. Claudia è una precisa. Di istituti ne vede tanti, in questi anni. E per capirci qualcosa, si arma di pazienza e di un foglio excel dove tiene traccia di tutto. «Bisogna stare attente. Non ti dicono tutti i costi da subito. Cambiano a seconda dei medicinali e delle terapie che ti danno, e di altre variabili. Farsi un quadro chiaro dall’inizio è difficile», racconta. 

Quattro ovuli estratti, tre embrioni ottenuti, due embrioni impiantati, un nulla di fatto: è l’esito del primo tentativo. Un mese per scoprire che no, non è incinta. «A quel punto mi sono fermata per sei mesi. Non mi sentivo in forma, con tutte le mie allergie. anche alimentari». Poi un altro tentativo, questa volta in un altro centro, «più piccolo, il primo mi era sembrato un supermercato», dice Claudia.

Ricomincia il trattamento, lo stile è diverso: mentre la prima volta veniva monitorata con analisi del sangue ogni pochi giorni, qui nulla. «Ne ero felice, perché il mio corpo non ne poteva più di aghi», dice Claudia sorseggiando il suo frullato. Dopo la stimolazione ovarica, decide di non impiantare subito gli embrioni ma di congelarli e aspettare qualche tempo, «fino a che non mi fossi ripresa un po’. Fino a che tutte quelle medicine non fossero sparite dal mio corpo. Ti assicuro: è qualcosa di insano», racconta. Poi il transfer, e l’esito: incinta. Per cinque giorni. «Non ha funzionato, ho avuto subito un aborto», alza le spalle. 

Tra un tentativo e l’altro, Claudia visita altri tre istituti, dato che in genere il primo appuntamento è costituito da un consulto gratuito che molte cliniche fanno anche via Skype, soprattutto quando devono parlare con potenziali pazienti all’estero. «Mi dicevano un sacco di bugie, e io ormai lo sapevo, con la mia esperienza e col fatto che ho cominciato a tenere traccia di tutto».

In una clinica, un giovane dottore le assicura: ce la farà. «Come scusi, in quanti tentativi? Ma possiamo arrivare fino a cinque, direi » . «What the hell», esclama Claudia ricordando quella conversazione. «Alla mia età e con tutti i miei guai fisici? Cinque tentativi? Non è semplicemente possibile. Questo è il mio sogno, e tu non puoi vendermi qualcosa che so che non è vero!». La sensazione è che il giovane dottore voglia vendere, a tutti i costi. «Sono dei venditori. Vendono sogni. Vuoi un bambino? In un modo o nell’altro, con i tuoi ovuli o con quelli altrui, dopo uno o cinque trattamenti, ti assicuriamo che da qui uscirai con una creatura in grembo».

Dopo il secondo tentativo e un bambino perso, Claudia si ferma per un po’. «Io e il mio compagno ci siamo lasciati. Avevo bisogno di rimettere in sesto la mia vita e di capire cosa volevo. Volevo essere madre, ma non avevo mai pensato di diventarlo da sola. Poi, da qualche parte del mio cervello, ho iniziato a realizzare: ‘non ho bisogno di un uomo per questo. Ho bisogno del mio tempo, e quando mi riprenderò, voglio un figlio’». 

La Rambla, Barcellona/Angela Gennaro

Quel momento arriva e Claudia opta questa volta per l’inseminazione artificiale. «Peccato che mi abbiano di nuovo dato il progesterone artificiale a cui sono allergica. Pensare che avevo portato alla dottoressa tanto di certificato medico». L’inseminazione, ça va sans dire, è un buco nell’acqua. 

Claudia, a questo punto non eri stanca? «Lo erano di più i miei ovuli», sorride. «Sì, certo, lo ero. Ma ho cambiato la mia vita così radicalmente… Come donna, anche se in coppia, quando vuoi avere un figlio e non riesci ti senti sola. Ero stanca, ma più fisicamente che mentalmente. Tentavo di tenere la mia mente in salute, con la terapia, con la meditazione». 

Perciò non demorde, e si rivolge all’ennesimo istituto. «Trovo una dottoressa onesta. Magari non “accorata” – vedono dieci potenziali clienti/pazienti al giorno e ripetono probabilmente sempre le stesse cose. Ma chiara». Claudia ha 44 anni, a questo punto. «E alla fine ha funzionato. Con i miei ovuli». E con donatore di sperma dalla Spagna: anonimo, come Claudia vuole che resti. «Ho fatto un lungo percorso, anche emotivo. Semplicemente le spiegherò come è nata». 

Elena, Barcellona

Ci mette la faccia, Elena. Da 11 anni ha un’impresa di responsabilità sociale corporativa in cui oggi lavorano 16 persone. È una donna manager, e il suo racconto è di quelli che farebbero cambiare idea anche alle più (legittimamente) irriducibili negazioniste della maternità.

Elena

A 40 anni «ho sentito che era arrivato il momento di diventare madre. Ho pensato, semplicemente: ‘Me gustaria’», «Mi piacerebbe». Fino a quel momento, semplicemente, aveva pensato a carriera e formazione, spiega con un sorriso smagliante illuminato da un rossetto perfetto. 

«Non avevo un compagno, all’epoca». Ma – «me gustarìa» – ed Elena si rivolge all’Institut Marquès di Barcellona per l’inseminazione artificiale. È lo staff della clinica che ci mette in contatto con lei per l’intervista. 

La sede di Ingeniería Social, l’azienda di Elena, a Barcellona/Angela Gennaro

Buona la prima: Elena, sei anni fa, diventa mamma single di due gemelli. Tre anni dopo decide di allargare la famiglia. Un altro maschio. «Madre sola e imprenditrice… difficile eh?», ride. Impossibile, si potrebbe dire. E invece lei unisce l’ufficio alla casa, prendersi cura dei figli e mandare avanti l’azienda. «Ovvio, ho avuto bisogno di aiuto: avevo sempre una persona in casa con me per darmi una mano, tutti i giorni». Ora i bambini stanno crescendo, e casa e ufficio sono tornati a essere due ambienti separati. «Ma comunque vivo vicino. Lì dietro l’angolo», sorride. 

Imprese e mondo lavorativo «sono elementi importanti in una scelta come questa». Le famiglie monoparentali, a Barcellona, non hanno molti aiuti, spiega Elena. Non dalle istituzioni. È più probabile che sia il privato a trovare forme organizzative compatibili con il ménage famigliare, spiega. «La conciliazione è importante, e sono importanti gli aiuti per non sentirsi abbandonati», dice la donna. 

Elena indossa la sua storia come se fosse un colorato e leggero abito estivo. Comunica libertà. «La mia famiglia? Sono stati contenti», risponde. «Mi conoscono, sanno che sono un’imprenditrice, anche nel creare una famiglia. Il giorno dell’inseminazione è stata una festa». I bambini sanno già tutto, di come sono nati. «Sìììììì, ma da quando erano piccoli!», spiega gesticolando. «Ma sai, qui è normale: a scuola ci sono famiglie di tutti i tipi. Due mamme, due papà, mamme sole, papà soli». 

Per Elena non era importante avere una relazione: «possono andare male, e per i bambini è anche più problematico». Le amiche le hanno fatto i complimenti per la sua scelta. E gli uomini? «Pure. Anche se un po’ erano stupiti del fatto che avessi fatto tutto senza avere bisogno di loro», ride. Ora Elena un compagno ce l’ha, da un anno e mezzo. «No, lui non ha figli. Abbiamo appena cominciato le procedure perché possa adottare i miei», dice prendendogli la mano. 

Giusy, Italia 

Dalla Catalogna all’Italia, dove invece i pregiudizi sembrano avere un ruolo importante nelle storie di tre donne. Tre mamme: Giusy, Roberta e Maddalena. Tre bambine e due storie, diverse ma unite da una linea sottile. Anche con loro parliamo attraverso l’Institut Marquès. 

«Mio marito e io abbiamo iniziato a pensare di ricorrere alla fecondazione assistita quattro anni fa», racconta Giusy. «Ci siamo recati in un grande istituto, molto famoso in Italia». Le sue parole ricordano quelle di Claudia quando parla della prima clinica cui si rivolge come un «supermercato». «Eravamo un numero», dice Giusy. «Senza alcuna valutazione sul nostro aspetto psicologico e morale. Peccato che a me servisse proprio quello». 

Le probabilità di restare incinta, le dicono in clinica, «’sono bassissime’, Proviamo, ma glielo dico già che non andrà bene’». È chiaro «che una così si scoraggia, no? Anche perché non è che l’aspetto economico sia secondario», dice Giusy. «Avevo 36 anni. Non hanno neppure lontanamente paventato l’ipotesi dell’eterologa, che pure ormai per legge sarebbe stata possibile». Alla nota clinica, Giusy e il marito comunque lasciano più di 1500 euro, racconta, «per poi non fare nulla». «Per il primo consulto, 250 euro, e poi per fare tanti esami. Tutti, rigorosamente all’interno della clinica e quindi pagati il doppio: mica ce lo dicevano, che avremmo potuto farli anche in ospedale spendendo la metà». 

Risultato, passano più di sei mesi. «Tempo perso, certo, ma soprattutto mi hanno fatto perdere la voglia», chiosa Giusy. Che a quel punto impacchetta esami medici, carte, test, informazioni e un pezzo di sogno, e decide di lasciar perdere la clinica in questione.  «Ero scoraggiata».

Il capitolo successivo, infatti, risale a molto tempo dopo. Al 2018. «Ho cominciato a cercare alternative su internet e ho visto che erano tutte all’estero. Impossibile per noi: abbiamo dei locali, non possiamo spostarci. Poi però ho partecipato all’open day del Marques in Italia. Qui ho incontrato la dottoressa che mi ha poi seguita in una loro sede italiana. Ho avuto fiducia in lei da subito. Ho fatto tutte le indagini all’ospedale – ‘potete risparmiare, fatele lì’, ci ha detto. Una volta che ha visto i risultati mi ha detto che c’era una buona percentuale di riuscita. Poi certo, tutto dipende dalla provvidenza e dalla scienza», dice Giusy. 

Ha ormai 40 anni, le paventano anche la possibilità di eterologa. «Mica come gli italiani… Anche se alla fine sono contenta di aver fatto tutto con il mio ovulo e il seme di mio marito», sorride. Decidono di darsi una possibilità. Solo una. E Giusy fa l’omologa. «Quando sono arrivati i risultati del test di gravidanza non ho avuto il coraggio di aprirli. ‘Leggi tu’, ho detto a mio marito. Poi ho chiamato la dottoressa e ho cominciato a piangere al telefono». E poi l’ansia, la paura che qualcosa vada storto. «Scrivevo alla dottoressa su whatsapp alle due di notte con domande del tipo: ‘Ma posso fare la doccia?’».

Ora annuncia solenne che, appena possibile, hanno tutta l’intenzione di dare un fratellino o una sorellina alla bimba che tiene in braccio mentre parliamo al telefono. «Sono molto più aperti, in Spagna e chi con quel paese lavora», dice Giusy. «Trattano questi temi in tutt’altro modo. In maniera normale. Qui in Italia ci sono ancora pregiudizi ingiustificati: nella prima clinica italiana cui ci siamo rivolti ci hanno trattato in un modo che sembrava rimarcare il fatto che… che non siamo come gli altri perché stiamo ricorrendo alla procreazione assistita per avere un figlio. E non è bello essere trattati così». 

Roberta e Maddalena, Italia

Stare insieme da 12 anni e non potere avere un figlio. O almeno, non potere averlo nel proprio paese. «Io e Maddalena (nomi di fantasia, ndr) abbiamo iniziato a fare un po’ di tentativi nel 2015 e il 2016 in Spagna», racconta Roberta al telefono. «Sai, in Italia, per legge non possiamo», sorride amaramente. «E la nostra ginecologa di fiducia ci ha indirizzate verso la Spagna. Abbiamo iniziato con un trattamento in una clinica di Madrid e abbiamo avuto problemi: un po’ per sfortuna, un po’ per incompetenza dei medici. Poi abbiamo cambiato città e siamo riuscite ad avere le nostre due gemelle al secondo tentativo al Marques di Barcellona».

Costrette all’esilio per diventare madri, perché la legge del proprio paese non lo consente. Cosa ha voluto dire? «Scomodità, prima di tutto», dice Roberta. «A livello logistico: ogni tentativo è un viaggio. In un paese straniero: e magari non conosci la lingua e la città. E ogni viaggio ha una durata variabile a seconda del tipo di trattamento, più o meno lungo. Per due volte siamo dovute rimanere in Spagna dieci giorni: è un problema, per i soldi e per il lavoro. E poi, appunto, è un dispendio economico notevole: viaggi, pernottamento, aerei dell’ultimo minuto – dipende tutto dagli esami, dalle ecografie, si parte da un momento all’altro». In Spagna «le cliniche in genere sono private, e costano». Costano i medicinali, gli esami. Quanto avete speso? «No, guarda. Meglio non quantificare», sorride. 

E poi. «E poi il fatto che non ci venga riconosciuto un diritto è inaccettabile. Perché le coppie etero possono fare un’ecografia in un giorno, in un’ora, comodamente a casa loro, e io per un trattamento devo perdere dieci giorni di lavoro?».

Roberta e Maddalena hanno avuto le loro bambine grazie al metodo Ropa, Recepción de Ovocitos de la Pareja. È la “maternità condivisa”. «Io ho portato avanti la gravidanza, la mia compagna ha donato gli ovuli», spiega. «È una situazione ulteriormente anomala. Le nostre bambine, alla nascita erano legalmente solo figlie mie pur essendo geneticamente figlie della mia compagna. Poi grazie alla sensibilità di alcuni sindaci, i figli della fecondazione assistita all’estero sono stati riconosciuti e ora all’anagrafe la mia compagna è la loro seconda mamma. Siamo uguali di fronte alla legge». 

Il monumento a Cristoforo Colombo alla fine delle Ramblas davanti al porto di Barcellona/Angela Gennaro

La parola d’ordine, però, resta ‘precarietà’. «Basta una circolare del ministro dell’Interno, a noi oggi non favorevole, per cambiare tutto. E sprofonderemmo  di nuovo in quel mondo di deleghe, anche per l’ospedale, che ci aveva avvolto all’inizio».

Certo, «abbiamo sempre incontrato persone sensibili e umane in ogni ambito in cui ci siamo trovate ad agire come famiglia, ma questo non può bastare. È vero che il mondo reale è spesso più avanti della legge, ma la società sta cambiando. La politica sta andando in una direzione a noi negativa e le persone sono molto condizionabili». 

Cosa direte alle vostre figlie? «La verità: che sono state pensate, volute, desiderate ancora prima di esistere. E che sono nate grazie alla nostra unione. Siccome non potevamo da sole, ci siamo rivolte a dei medici e a un donatore», sorride. 

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