Il pendolo di Rousseau. Perché Di Maio sta facendo il duro

di OPEN

Il capo politico del M5s prova a coniugare le sue ambizioni personali con quelle di Conte e dei suoi parlamentari. Se ci riesce fa bingo. Se no…

Lo sconcerto era molto diffuso ieri pomeriggio, subito dopo le dichiarazioni di Luigi Di Maio dopo l’incontro della delegazione 5 Stelle col premier incaricato Conte. Sia i “promessi sposi” Pd, sia la vasta platea di deputati e senatori M5s si chiedevano il motivo reale di un discorso così ostentatamente duro, ai limiti della provocazione.


“Ultimatum” la parola più usata, non solo nei commenti ufficiali. Prendere o lasciare, ci sono i nostri punti programmatici e i provvedimenti passati che non si toccano, compresi i decreti sicurezza. O accettate o si va al voto (e stamattina la lettura del Corriere della Sera, col sondaggio di Pagnoncelli che fa rimbalzare il Movimento fino al 25 per cento, fa forse considerare l’alternativa delle elezioni in autunno con meno paura).


La verità è però che nel gruppone parlamentare i sostenitori del ritorno alle urne si contano sulle dita di una mano. E non per modo di dire: nei giorni convulsi della spallata di Salvini al governo gialloverde ci fu una assemblea degli eletti.

Secondo quanto Open ha ricostruito, lì Di Maio si presentò con la fierezza di chi ha subìto uno sgarro e disse che la sua idea era quella di andare a affrontare il traditore Salvini subito alle elezioni. «Se siete d’accordo alzate la mano». La alzarono in quattro, compresa la vicepresidente del Senato Paola Taverna. Insurrezione? No, spirito di sopravvivenza e volontà di battere Salvini in un altro modo: togliendogli il giocattolo del Viminale.

Sullo spirito di sopravvivenza è inutile dilungarsi: il M5s ha portato in Parlamento lo scorso anno oltre 300 eletti, di cui il 40 per cento al secondo mandato. Nessuno, neanche coi nuovi sondaggi, può sperare di avvicinare quel risultato. Vuol dire che anche per molti debuttanti l’esperienza parlamentare finisce con questa legislatura. Logico che non fremano per troncarla ora.

È però sul secondo punto, punire Salvini, che Di Maio si è trovato di fronte a un fenomeno che non aveva previsto: una larga parte degli eletti grillini – e non solo quelli vicini a Fico, tradizionalmente più a sinistra – erano pronti a un’alleanza nuova, che mettesse il traditore all’opposizione, senza più le armi propagandistiche connesse al suo ruolo di Gendarme d’Italia.

Qui è emersa la grande divaricazione nel mondo 5 Stelle. Si sa che Di Maio, come Di Battista e molti altri, ha una formazione e suggestioni familiari di destra, e in questi anni la politica del Movimento ha individuato nel Pd l’avversario per definizione.

L’attacco a destra era quasi tutto contro Berlusconi. Ma nei gruppi parlamentari eletti il 4 marzo 2018 c’è un equilibrio diverso. E soprattutto fuori dal governo è andata montando una avversione forte per l’alleato prepotente.

Ma – questa la preoccupazione di Di Maio – nella nostra base non è cosi: li abbiamo martellati per sei anni con fatti e numeri sulla piovra del potere Pd, sulle magagne del renzismo, fino a Bibbiano. Anche tutto questo ci ha fatto arrivare al 32 per cento, e ora quanti di loro approveranno il capovolgimento del nostro racconto?

Questo ci porta dritto dritto alla vera incognita: il voto online sulla piattaforma Rousseau. Non a caso a rappresentare il dovere di farvi ricorso si è precipitato a Roma nei giorni delle consultazioni Massimo Bugani, che con Davide Casaleggio guida l’associazione Rousseau, ma che è anche uno dei più decisi critici dell’accordo col Pd.

La bocciatura dell’intesa di governo sarebbe una bomba atomica. E questo Di Maio è il primo a saperlo. La morale la traccia una figura chiave del Movimento, che ha vissuto da vicino tutte le ultime fasi dalla parte di Di Maio: «Sì, la base è divisa. Molti chiedono il ritorno al voto, non vogliono il Pd. Mentre gli eletti, invece, sono per fare a tutti i costi il governo. Questo dimostra le difficoltà di selezione della classe dirigente. Gli eletti dovrebbero rappresentare il territorio, dunque la base. Se non è così, qualcosa non ha funzionato».

È anche, e forse soprattutto per questo, che Di Maio fa l’elastico: la drammatizzazione è un segnale alla base che dovrà votare e decidere la sorte del governo, ma anche un po’ la sorte del Movimento. E su questo influirà anche quel segnale nella composizione del Conte 2: se non ci fosse Di Maio vice premier, come reagirebbero gli elettori online di Rousseau? Così il capo politico del M5s prova a coniugare le sue ambizioni personali con quelle di Conte e dei suoi parlamentari. Se ci riesce fa bingo. Se no…

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