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L’era del Normcore: quando la moda è passata dall’essere esclusiva all’essere reale

25 Settembre 2019 - 14:55 Intimissimi
«Una volta le persone nascevano nelle comunità e dovevano trovare la loro individualità. Oggi nascono individui e devono trovare la loro comunità»

Era il 2014 quando uno dei più importanti team di previsioni di tendenze, il K-hole, portava all’attenzione il termine “Normcore” – nato dalla crasi “normal” e “hard-core”. Individuato nell’ambito di un più ampio studio sociologico (Youth Mode), lo definivano come «il non cercare per forza di fare la differenza, indossando abiti ardentemente ordinari».

Schermata dallo studio di K-Hole

Nello stesso anno, la giornalista del New York Times Fiona Duncan scriveva un articolo intitolato: Normcore: la moda per quelli che hanno capito di essere uno su 7 miliardi. E così, quella che fino a poco tempo prima veniva intesa come una tendenza “anonima”, diventava il cuore dell’espressione estetica.

Da qualche anno a questa parte, il mondo della moda sembra aver abbandonato il culto dell’originalità a favore di una nuova inclinazione per l’ordinario. Complice sia la diffusione di soluzioni low cost, sia la quotidianità indiscussa di capi come jeans e t-shirt, sia l’umanizzazione delle star sui social network, l’industria del fashion si è trovata a fare i conti con questo spirito del «trovare liberatorio il non essere in nessun modo speciali».

Questo nuovo approccio all’estetica ha aperto le porte a testimonial e spot pubblicitari di tutt’altro respiro rispetto ai classici modelli irraggiungibili. “Normcore” è diventata una parola chiave, quasi imprescindibile, per poter comunicare alle consumatrici e ai consumatori la validità del proprio prodotto.

Schermata dallo studio di K-Hole

Il “normale spinto” è ormai il pane quotidiano del fashion business: dallo spot di Dove, che ha scelto di usare donne comuni e non modelle, fino all’ultima campagna di Intimissimi con Sara Jessica Parker, in cui vengono proposti numerosi stili di reggiseni per rispecchiare la “verità” di ognuna, passando per i sorrisi disinvolti e imperfetti della linea di rossetti di Gucci.

Nella pubblicità di Intimissimi, l’attrice incoraggia le donne a scegliere un intimo che rispecchi la verità del proprio corpo e del proprio carattere: una postura contraria a quella classica, dove il modello (e la modella) si imponeva come standard da raggiungere.

Dallo standard al reale

I lati positivi del “Normcore” sono diversi. Il più importante è certo quello dell’inclusività: da un certo punto in poi, non si trattava più solo di includere bellezze stravaganti o fuori dall’ordinario, ma di creare soluzioni che parlassero direttamente al reale.

Il beautyfing a ogni costo sembra ormai essere acqua passata. Il «sempre crescente antifashion sentiment», come lo ha definito lo stilista Jeremy Lewes, si è imposto sulla dittatura dello standard estetico, lasciando spazio alla realtà nella sua forma più consueta.

Pagina Facebook Gucci / Campagna di rossetti

Un processo talmente ben riuscito e radicato che, secondo l’Urban Dictionary la parola “Normcore” è diventata sinonimo di “cool”. L’immediatezza del corpo senza filtri è una prospettiva da cui le case di moda non possono – e forse non vogliono – più sottrarsi. La distruzione dei canoni della moda è, ormai, la moda stessa.

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Foto copertina: campagna Gap

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