A lasciare l’Italia sono quelli che la amano davvero: sul serio non si può far nulla per Anas e gli altri? – Il video

Una storia che parla di giovani, sogni e della battaglia impari tra forza di volontà e burocrazia

Spesso si parla di immigrazione, lavoro, giovani, come se si trattasse di temi eterei su cui imbastire dibattiti tra filosofia e ideologia spicciola. Eppure queste tre parole, insieme ad “ambiente”, sono le urgenze dei nostri giorni, le coordinate che la politica segue più per rinvigorire il consenso che per convertire le impellenze in normalità. Mentre gli intellettuali si spendono in conferenze e gli amministratori nella querelle propagandistica, ci sono storie ed energie che attraversano la società fino a esaurirsi nell’immobilismo generale. E se sono così forti da non lasciarsi consumare in un ufficio della pubblica amministrazione, quegli entusiasmi si trasferiscono altrove. Perché l’Italia è cieca, o meglio, troppe volte l’Italia non vuole vedere.


Anas Saleh è un ragazzo conosciuto a Bologna. In un pomeriggio, almeno cinque persone l’hanno fermato per strada solo per chiedergli se avesse risolto il problema. Quale? Il 30 settembre scade il suo permesso di soggiorno per attesa occupazione. Dopo quattro anni vissuti nella città turrita, Anas dovrà tornare ad Amman, in Giordania. «È una delusione: questa è casa mia, i miei amici, i miei affetti, sono qui». E poi il sogno di Anas è quello di insegnare italiano: ha studiato per questo. «Ormai è un anno che rimbalzo come una pallina da ping pong dagli uffici di collocamento alla questura – racconta, sconfortato, il 28enne -. Associazioni, Caf, uffici per l’immigrazione: ho chiesto a chiunque, pare che nessuno abbia competenza sul mio caso». Sorprende la proprietà di linguaggio di Anas. Anzi no: si è laureato in Lingua e cultura italiana all’Università di Bologna con 110 e lode. Ciò che sorprende è che un Paese investa nella formazione di una persona e poi, pur di non risolvere la matassa burocratica, la lasci andare via.


Anzi, glielo imponga: «Io amo l’Italia, ma non ci resterò mai da immigrato irregolare. Mai». Anas non ha potuto rinnovare il contratto di affitto della camera in cui vive poiché non ha la certezza che troverà qualcuno in grado di risolvere la questione. Il permesso di soggiorno pensato proprio per gli studenti stranieri dura un anno e poi non è più rinnovabile. Se non trovi un lavoro, quindi, devi fare le valigie. Eppure Anas qualche lavoro l’ha già fatto: «Ho insegnato italiano a ragazzi stranieri e fatto corsi privati di altre lingue. Purtroppo, però, non ho mai avuto un contratto vero». Se avesse aperto la partita Iva e fatto un po’ di fatture, «mi ha spiegato un avvocato del patronato che avrei potuto produrre la documentazione per il permesso di soggiorno da lavoratore». Ma ormai è troppo tardi.

C’è solo un modo affinché Anas possa restare in Italia e «restituire a questo Paese tutto quello che mi ha dato»: un contratto di lavoro, part-time o full-time non ha importanza. «Ho perso tempo, credetemi, a cercare di recuperare informazioni dai vari uffici competenti – e sull’effettiva competenza le riserve sono d’obbligo -. Poi, di mezzo, ero riuscito a trovare un lavoro. Faccio un primo colloquio, passano mesi, faccio un secondo colloquio, mi dicono che sono stato preso». «Non potete immaginare la gioia. Aspettavo solo la chiamata per tornare in azienda a firmare il contratto». Qui entra in gioco un aspetto chiave della vita del 28enne. Anas è cieco. Ha perso la vista a 16 anni in seguito a un glaucoma. «E la chiamata è effettivamente arrivata: era il responsabile dell’azienda. Tremavo per la felicità, ma dall’altro lato del telefono mi sono state dette queste parole: “non possiamo più prenderti perché abbiamo scoperto che i nostri software non sono compatibili con gli assistenti vocali per i non vedenti”».

Anas ai piedi delle due Torri: Garisenda e degli Asinelli

Ecco come è passato l’anno di “attesa occupazionale” per Anas: uffici pubblici, avvocati e decine di curriculum che, letta la voce “disabilità”, venivano scartati. «Mi ricordo ancora il mio primo giorno a Bologna. Sono passati quattro anni ormai. Una felicità incontenibile: per me era la prima volta che prendevo un aereo da solo e qui non avevo nessuno. Poi ho trovato un sacco di belle persone che mi hanno aiutato nei primi passi nella città. Adesso riesco a raggiungere qualsiasi posto, faccio la spesa, cucino, esco con gli amici. Devo davvero rinunciare al mio sogno di lavorare e vivere in Italia per un documento?». Adesso è Anas a condurre l’intervista. Ma il sottoscritto non ha saputo rispondergli. «Ti accompagno alla stazione», dice, mostrando la strada. «Spero di rivederti qui a Bologna – ride per il gioco di parole, ma poi aggiunge una frase terribilmente vera -. Sempre che questo Paese riesca a vedere me».

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