Cosa è lo Ius culturae. E perché è il momento di decidere sulla cittadinanza ai nuovi italiani

L’Italia è il terzo paese europeo per cittadini stranieri regolarmente residenti nel proprio territorio. Molti di loro sono giovani che studiano e si formano nel nostro Paese: la discussione della cittadinanza riparta da loro

«Migranti è un aggettivo, le persone sono sostantivi». Con queste due frasi Papa Francesco ha presentato la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, istituita nel 1914, e che da quest’anno si celebrerà ogni ultima domenica di settembre. Le persone che migrano sono donne, uomini, bambini, padri, madri, lavoratori, studenti.


«L’atteggiamento che abbiamo nei loro confronti rappresenta un campanello d’allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla “cultura dello scarto”», ha detto Bergoglio. «Su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione».


Un cambio di passo e di prospettiva che si fa sempre più urgente: secondo l’ultimo rapporto Immigrazione diffuso dalla Caritas e dall’organizzazione Migrantes, l’Italia, con i suoi 5.255.503 cittadini stranieri regolarmente residenti nel proprio territorio (l’8,7% della popolazione), si colloca al terzo posto nell’Unione Europa per presenze di migranti – dopo Germania e Regno Unito, seguita da Francia e Spagna.

Secondo l’ente religioso, i due decreti sicurezza varati dal precedente governo hanno introdotto «modifiche restrittive», suggerito «indebite semplificazioni», e aggravato «la precarizzazione dei diritti delle persone, offrendo la sponda ad atteggiamenti di intolleranza rispetto alla presenza dei cittadini stranieri in Italia».

Tra le «fatiche dell’integrazione» vi è la «pesante esclusione di circa 90.000 cittadini stranieri» dal reddito di cittadinanza, l’aumento delle fake news e degli hate speech.

I numeri degli stranieri residenti in Italia in un’infografica realizzata da Centimetri

Nel nostro Paese, il soggetto migrante è spesso una persona che si districa fra difficoltà di tipo burocratico, scolastico, giudiziario, sanitario, economico, sociale. Con «i problemi della vita quotidiana che affrontano tutti, ma che, nel suo caso, sono forse più complicati che per molti altri».

Chi arriva e chi c’è già: il progetto del Conte II sulle migrazioni

Accanto alle politiche di redistribuzione per diminuire gli arrivi, obiettivo che resta anche nel Conte II, il nuovo esecutivo sta muovendo i primi passi nei progetti d’integrazione.

Il vertice di Malta, che molti hanno definito un accordo a metà, ha sancito un ritorno in campo dell’Italia in Europa dopo le politiche dell’Interno a trazione salviniana, ma ha regolamentato in maniera provvisoria solo il tema delle redistribuzioni dei migranti salvati in mare dalle Ong.

I dettagli sulla rotazione dei porti verranno resi noti nel prossimo consiglio dei ministri europeo a Lusseburgo, l’8 ottobre, ma sul fronte dell’integrazione di chi potrà restare e di chi già c’è, l’Italia ha ancora tutto da costruire.

A tal proposito, in un’intervista a La Stampa del 21 settembre, la ministra delle Famiglie Elena Bonetti (ora Italia Viva), ha compiuto un primo – e ingombrante – passo. Spostando l’attenzione da chi è appena arrivato a chi ha già scelto legalmente di restare, Bonetti ha dichiarato: «Un bambino, figlio di stranieri, che concluda un ciclo di studi nel nostro paese deve avere la cittadinanza italiana con lo ius culturae».

Il giorno successivo, interpellato dallo stesso quotidiano, il presidente della Commissione Affari costituzionali alla Camera Giuseppe Brescia (M5s) ha ribadito lo stesso concetto: «Un bambino nato in Italia da genitori che siano regolarmente residenti da un certo periodo nel nostro Paese che abbia completato un ciclo di studi in Italia, si può ritenere italiano».

Endorsement sono poi arrivati da Andrea Marcucci e Matteo Orfini, entrambi Pd. Una presa di posizione condivisa che apre una voragine tra i due atti del governo Conte, e che in qualche modo arriva inaspettata. Conoscendo bene i rischi di un terreno così scivoloso, né Movimento 5 StellePartito Democratico avevano citato la questione della cittadinanza nei punti per l’intesa.

È tempo dello ius culturae

Abbiamo tutti in mente le immagini di Bakari Coulibaly, il primo laureato con protezione internazionale in Italia, che si stringe emozionato il viso tra le mani sotto la corona di alloro. O la storia di Ahmed Musa, arrivato su un barcone dalla Libia nel 2011, laureatosi a Torino con una tesi sui diritti umani in Darfur. Lo ius culturae riparte da qui. Dall’investire nei ragazzi e le ragazze che a loro volta hanno investito nel loro futuro in Italia.

Il progetto riporta alla mente le discussioni sullo ius soli, il disegno di legge per la cittadinanza naufragato al Senato nel 2017 a causa della mancanza del numero legale di parlamentari in Aula e l’imminente scioglimento delle Camere.

ANSA / Un momento della fiaccolata per lo ius soli in piazza Montecitorio a Roma, 20 dicembre 2017

Lo ius culturae è uno scenario inedito nel diritto di cittadinanza in Italia: prevede l’ottenimento della cittadinanza per un minore straniero, nato in Italia o entrato nel Paese entro il 12esimo anno di età, purché abbia frequentato regolarmente almeno cinque anni dei cicli di studio o dei percorsi di istruzione e formazione professionale.

L’ultimo atto per rivedere i sistemi di cittadinanza in Italia era stato portato in scena da Leu nell’ottobre 2018: all’epoca all’opposizione, i parlamentari di Liberi e uguali avevano abbozzato un testo a prima firma di Laura Boldrini (ora Pd), che aveva avuto come relatore l’attuale ministro della Sanità Roberto Speranza.

Ormai in quota di maggioranza, Leu porterà il testo alla Camera il 3 ottobre. «Non c’è solo il testo a prima firma Boldrini da esaminare», ha specificato Brescia. «Ci sono diversi testi di altri gruppi, tra cui un testo Polverini di Forza Italia che introduce proprio lo ius culturae. Naturalmente arriverà anche un testo a firma del Movimento 5 Stelle».

La cittadinanza in Italia

Come per tutti Paesi ad alto tasso di emigrazione, la prima legge sulla cittadinanza in Italia seguì il principio dello ius sanguinis, cioè della trasmissione del diritto di madre/padre in figlio, così da riuscire a mantenere un legame con chi viveva e lavorava all’estero, continuando comunque a contribuire all’arricchimento del Paese di origine attraverso le rimesse.

La legge arrivata nel 1992 ha rafforzato questa visione: da una parte ha accorciato i tempi necessari agli stranieri con discendenza italiana per naturalizzarsi in Italia (da 5 a 3 anni di residenza); dall’altra, ha reso più difficile per i figli degli stranieri ottenere la cittadinanza, inserendo l’obbligo di residenza continuativa e legale nel Paese fino al compimento del diciottesimo anno di età.

L’unica alternativa al diritto di sangue rimaneva il matrimonio, che garantiva l’acquisizione dello status ad appena sei mesi dalle nozze con una cittadina o un cittadino italiani. Nel 2002, poi, il governo Berlusconi ha alzato le tempistiche minime da 6 mesi a due anni.

Dal 1992 in poi, tutti i tentativi di passare da uno ius sanguinis a uno ius soli (un diritto che si acquisisce indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori) sono rimasti bloccati o sono stati disinnescati dai vari esecutivi.

Nel 2012 arrivò nelle camere una proposta popolare di riforma chiamata “l’Italia sono anche io“, che prevedeva uno ius soli temperato in salsa ius culturae: poteva essere cittadino sia chi avesse genitori italiani, sia chi fosse nato in Italia da immigrati che risiedono da molti anni nel Paese, sia chi avesse frequentato la scuola italiana.

ANSA / Il leader della Lega Matteo Salvini durante la manifestazione contro lo ius soli in Piazza Santissimi Apostoli, 10 dicembre 2017

Dopo essere stata approvata alla Camera nel 2015, la proposta rimase bloccata in Senato per due anni. La questione venne ripresentata dall’esecutivo Gentiloni nel 2017 e da Leu nel 2018 in quota opposizione. Si vedrà ora se il Parlamento italiano sarà pronto o meno a ridiscutere un tema ormai non più rinviabile per il Paese.

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