Cassazione: «No ai domiciliari per il killer della strage di Capaci Brusca»

L’ex boss ordinò di sequestrare, uccidere e sciogliere nell’acido il figlio quindicenne del pentito Santo Di Matteo e azionò il telecomando di Capaci

Niente domiciliari per Giovanni Brusca: lo ha stabilito la Cassazione. La Corte suprema ha accolto di fatto il parere espresso dalla Procura che nella requisitoria scritta ha rigettato la richiesta della difesa dell’ex boss – condannato per la strage di Capaci e altri gravi delitti – di ottenere gli arresti domiciliari in località protetta. Brusca è in carcere a Rebibbia.


Il sì della Procura nazionale antimafia

Giovanni Brusca, dopo 23 anni di carcere, avrebbe potuto finire di scontare la sua pena agli arresti domiciliari: questo era stato il parere della Procura nazionale antimafia. Si trattava della prima volta che l’uomo che fece sequestrare, uccidere e sciogliere nell’acido il figlio quindicenne del pentito Santo Di Matteo, aveva ottenuto il consenso alla misura da parte della PNA, più volte richiesto.


Brusca, che è diventato un collaboratore di giustizia già dal 1996, si era rivolto alla Corte di Cassazione che oggi si è riunita per decidere sul suo ricorso, presento dall’avvocato Antonella Cassandro, all’ennesimo rifiuto del tribunale di sorveglianza alla concessione delle misure alternative al carcere. La legale di Brusca aveva puntato proprio sul fatto che lo stesso tribunale non avesse preso in considerazione, nell’ultimo rifiuto nel marzo scorso, il nono dal 2002, le valutazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che dopo numerosi dinieghi si era espresso positivamente sui domiciliari all’ex boss.

Secondo Cafiero da Rho «il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». Inoltre, grazie al contributo di Brusca «sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca». Non è trascurabile, per la Procura «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», e «le relazioni e i pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi».

Giovanni Brusca è l’uomo che azionò materialmente la leva del telecomando che innescò l’esplosione che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. La scarcerazione, e il passaggio ai domiciliari, oltre che una questione giuridica, avrebbero avuto anche una forte portata simbolica. Brusca ha già usufruito di più di ottanta ore di permessi premio dal suo arresto avvenuto nel maggio del 1996.

Anche il suo comportamento durante le ore di permesso era stato considerato testimonianza di ravvedimento. Brusca avrebbe dato prova di una «affidabilità esterna», certificata dagli operatori del carcere romano di Rebibbia, secondo cui «l’interessato non si è mai sottratto ai colloqui e partecipa al dialogo con la psicologa, mostrando la volontà di dimostrare il suo cambiamento».

Il no ai domiciliari

Nonostante ciò il tribunale di sorveglianza aveva continuato a negare la detenzione domiciliare. Per i giudici, Brusca è un mafioso dalla «storia criminale unica e senza precedenti», responsabile di «più di cento delitti commessi con le modalità più cruente». Grazie alla sua collaborazione è stato condannato a 30 anni di prigione invece dell’ergastolo (che gli avrebbe escluso qualsiasi misura alternativa al carcere), ma il «ravvedimento» dev’essere qualcosa che va oltre «l’aspetto esteriore della condotta».

Per i giudici del tribunale del riesame, affinché Brusca possa lasciare il carcere, non basta che tenga un comportamento esteriore diverso da quello criminale, è necessario «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto»; cioè un «pentimento civile», oltre le dichiarazioni rilasciate davanti ai magistrati che naturalmente possono essere anche considerate come giustificate dai “vantaggi” di sconto di pena conseguenti al pentimento. A Brusca è richiesto un «riscatto morale nei riguardi dei familiari delle vittime» che invece non ci sarebbe mai stato. Il Pg della Cassazione ritiene che Brusca non si sia ravveduta a sufficienza.

Il rapporto con le vittime sembra per i magistrati dirimente rispetto al reale pentimento di Brusca. Sebbene l’ex mafioso abbia incontrato Rita Borsellino, la sorella di Paolo scomparsa nel 2018, su iniziativa della donna, ciò secondo i giudici «non dimostra che vi sia stata una richiesta di perdono alla signora né ai discendenti di Paolo Borsellino o ai familiari delle altre vittime dei delitti commessi, e neppure al dottor Pietro Grasso», il senatore e ex magistrato a cui Brusca preparava un attentato nel 1992.

Fuori dal carcere nel 2021

Secondo i legali del pentito Brusca ha più volte, pubblicamente, chiesto perdono alle vittime. Ha inoltre, sempre secondo gli avvocati, chiesto di poter effettuare attività di volontariato durante i permessi, per dimostrare il proprio ravvedimento, ma «non gli è stato concesso per motivi di sicurezza». Quindi il ricorso in Cassazione. Ancora secondo la difesa di Brusca, il tribunale del riesame pretenderebbe «un ravvedimento ad personam modellato sulla figura del Brusca». Anche se le misure alternative non saranno concesse, il sessantaduenne Busca, non è distante dal “fine pena”: nel novembre del 2021, con lo sconto di tre mesi per ogni anni in carcere, la condanna a trent’anni sarà scontata.

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