Sono state quindi messe a nudo diverse irregolarità nella gestione di tutto il sistema autostradale italiano, con annessi allarmismi. Ma il rischio idrogeologico non riguarda solo viadotti e autostrade.
«Oggi riguarda un territorio urbano di 1.135 ettari dove vivono e lavorano circa 300.000 persone – spiegano gli organizzatori – è la più elevata esposizione d’Europa. Roma ha zone che non reggono nemmeno un acquazzone.
Inutile stupirsi quando il sistema fognario è in parte non in perfetta efficienza, manca la corretta e continua manutenzione dei tombini e sono inefficienti e in gran parte scomparse per sversamento di rifiuti e vegetazione spontanea circa 700km di indispensabili vie d’acqua tributarie del Tevere e dell’ Aniene: canali, fossi, sistemi di scolo.
I problemi sono molto gravi come hanno dimostrato le piene dell’ 11 dicembre 2008, del novembre 2012 e del gennaio 2014 con zone sott’acqua. Le cartografie aggiornato dell’Autorità di Distretto mostrano fragilità mai strutturalmente affrontate».
Rischi e necessari strumenti legislativi
Si parla innanzitutto di rivedere tutti i paradigmi finora seguiti nella progettazione e nella gestione del ciclo delle acque urbane, ovvero il principale fattore da cui possono derivare futuri problemi ai cittadini romani.
Il rischio idraulico deriverebbe infatti da incoerenze tra la pianificazione del territorio e l’effettiva messa in funzione delle reti fognarie, cosa che durante il maltempo può far venire alla luce tutti i problemi accumulatisi, senza essere del tutto affrontati in maniera pienamente efficace.
Il rischio è anche ambientale. L’impatto delle «acque di dilavamento meteorico» possono avere infatti portate incompatibili con gli stessi impianti di depurazione, in un territorio che non è omogeneo, quindi si deve tener conto delle «caratteristiche dei recettori e della loro sensibilità nei confronti dei carichi sversati nel lungo periodo e nel singolo evento».
Sono tutti ragionamenti che per produrre delle risposte concrete necessitano degli strumenti legislativi e amministrativi adeguati. I relatori parlano di un «governo del territorio» che sia frutto di una «nuova visione “istituzionale”». Insomma, come si suol dire “ci vuole la volontà politica”.
Non basta evidentemente una circolare dal Ministero. Occorre una sinergia di diversi enti e amministrazioni politiche: Regione, Autorità di distretto, Roma Capitale, Città metropolitana, i vari Consorzi di bonifica e i Gestori del servizio idrico integrato, devono lavorare senza arenarsi in dibattiti sterili, per un arco di tempo che non può restare limitato alla durata media di un Governo o di una amministrazione locale italiana.
L’appello è infatti quello di adoperarsi «su un orizzonte temporale almeno decennale».
«Sei in un Paese meraviglioso». Come dare torto ai cartelli disseminati per l’Italia, da Nord a Sud, lungo le arterie principali del Paese. Peccato che per usufruire di quelle meraviglie, gli italiani paghino un pedaggio tra i più cari d’Europa: in media, per percorrere 250 chilometri, si spendono circa 20 euro. Cifre simili alle nostre si raggiungono solo in Francia. È normale aspettarsi, al pari di un costo così elevato, una manutenzione delle strade di un livello altrettanto alto.
Eppure non è così: nel terzo millennio, in Italia, cadono ponti e viadotti. Interi tratti di autostrada, anziché unire, dividono i cittadini e li relegano in code infinite su carreggiate a una sola corsia. Solo nell’ultima settimana, certo a causa del maltempo, è stata chiusa, riaperta e richiusa in entrambe le direzioni l’autostrada A6 Torino-Savona nel tratto tra Altare e il bivio con la A1. Trenta metri di viadotto, quello di Madonna del Monte, venuti giù il 24 novembre 2019, per fortuna senza vittime. Stessa giornata, sulla Torino-Piacenza, si è aperta una voragine, che ha costretto la chiusura dell’autostrada tra Asti e Villanova.
Andando indietro nel tempo, il 9 marzo 2017 cadde il ponte 167 dell’A14, nel tratto tra Osimo e Camerano: due morti. Il 14 agosto dell’anno dopo, aull’A10, il dramma che ha segnato per sempre la città di Genova: il Ponte Morandi va giù, portandosi con sé 43 vite innocenti. È il “crollo di grazia”, quello che fa risvegliare la politica dall’intorpidimento e porta al centro del dibattito pubblico la necessità di investire nella manutenzione delle infrastrutture italiane. Secondo l’Anas, l’ente nazionale per le strade, sono ben 5.931 i ponti, i viadotti e le gallerie che hanno bisogno di interventi di manutenzione e monitoraggio.
La voce grossa dei 5 stelle
Il Movimento 5 stelle, dopo il 14 agosto di un anno fa, è sempre stato deciso a revocare la concessione della rete autostradale italiana ad Autostrade: «I Benetton alzano la voce proprio ora che sentono di poter perdere i loro contratti milionari, ottenuti grazie al silenzio di una classe politica complice e inadeguata – ha detto Luigi Di Maio, il primo dicembre -. Non c’è niente da fare, davanti ai morti si girano dall’altra parte, ma appena gli tocchi il portafogli impazziscono. Per noi la strada è tracciata».
Il Pd si allinea
E il Partito democratico, principale alleato di governo, sta prendendo in seria considerazione la strada che porta alla revoca. La ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli ha sottolineato in audizione alla Commissione Lavori pubblici del Senato che «dovremmo arrivarci rapidamente» a una revisione di tutte le concessioni autostradali. Ribadendo che non si tratta di «una questione politica, ma di difesa, la migliore possibile, dell’interesse pubblico. Una questione che dovremo analizzare bene e gestire con intelligenza».
Briglie sciolte
Da quando Atlantia, società del gruppo Benetton, si è sfilata dall’acquisto di quote di Alitalia, la maggioranza è tornata a parlare di revoca della concessione senza preoccuparsi di poter incidere sulla trattativa per salvare la compagnia aerea. Si può fare? Si può stracciare il contratto che lega le arterie stradali dell’Italia ad Autostrade fino al 31 dicembre 2038? Analizziamo punto per punto la convenzione del 2007 che disciplina il rapporto tra Anas e Autostrade per l’Italia Spa.
Chi decise quella concessione?
Durante il quarto governo Berlusconi, nel 2008, l’esecutivo convertì in legge – la numero 101/2008 – un decreto del 2007 emanato dal secondo governo Prodi. In quel testo è compresa anche la tanto critica clausola secondo cui, in caso di revoca della concessione, anche per colpa grave, Autostrade avrebbe avuto diritto al risarcimento degli utili che le sarebbero derivati dalla gestione della rete fino a scadenza del contratto. Si stima che, se la revoca avvenisse oggi, lo Stato dovrebbe versare circa 20 miliardi ad Autostrade, nonostante «la colpa grave» che, in questo caso, sarebbe la mancata manutenzione.
Ipotesi delegificazione
Non è da escludere, tuttavia, che si possa perseguire la via della delegificazione per rendere meno esosa per le casse pubbliche la revoca della concessione ad Autostrade. L’istituto, che consente al governo o ai ministeri di emanare norme di rango secondario per snellire il normale iter parlamentare, consentirebbe di procedere con rapidità alla cancellazione della legge 101/2008 che fortificava gli accordi per la gestione delle autostrade italiane.
La clausola che non si doveva firmare
Tra le clausole criticate ce n’è una, in particolare, che mette in posizione di forza Autostrade. L’articolo 9, quello sulla “Decadenza della concessione”, incluso in quella convenzione recita: «Constatato il perdurare dell’inadempimento agli obblighi – di Autostrade, tra cui la mancata manutenzione -, il Concedente subentra in tutti i rapporti attivi e passivi di cui è titolare il Concessionario». Al terzo comma il punto nevralgico che inguaia lo Stato: «Il trasferimento è subordinato al pagamento di un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile dalla data del provvedimento di decadenza sino alla scadenza della concessione, al netto dei relativi costi, oneri, investimenti e imposte prevedibili nel medesimo periodo».
Quindi è possibile avviare la procedura di revoca?
Sì. Ma bisogna muoversi con cautela prima di impantanarsi in procedure legali su cui ha competenza il Tribunale civile di Roma. La concessione è un contratto a titolo oneroso: quei contratti in cui tutte e due le parti sostengono un sacrificio patrimoniale. In questo caso, l’amministrazione pubblica ha affidato a Autostrade la concessione di servizi su una rete di strade pubbliche. L’articolo 176 del codice dei contratti pubblici permette la revoca della concessione, tanto «per motivi di pubblico interesse – quanto – per inadempimento del concessionario». Nel secondo caso, lo Stato potrebbe pretendere la revoca della concessione senza pagare penali, ma c’è quella convenzione firmata nel 2007 che invece dà diritto ad Autostrade di pretendere gli utili che le sarebbero derivati mantenendo la gestione fino al 2038.
Tempi lunghi
Prima di tutto, però, deve essere la magistratura a stabilire se quei gravi inadempimenti sono riconducibili alla gestione di Autostrade. Una parte politica, senza aspettare le lungaggini giudiziarie, vorrebbe procedere direttamente alla revoca e senza versare un euro ad Autostrade, anzi, chiedendo i danni del Ponte Morandi e delle altre opere viarie che versano in uno stato di degrado. Ma il codice civile dice chiaramente che, nel caso in cui la rottura avvenga solo da una parte, vanno pagate le penali previste. Nel caso di Autostrade, è proprio quella convenzione firmata prima durante il governo Prodi e poi convertita in legge dal governo Berlusconi a stabilire il costo della revoca.
Quanto costerebbe?
Come si arriva a quei 20 miliardi circa di cui abbiamo già parlato? Con un calcolo molto semplice, si può moltiplicare l’utile della gestione annuale di Autostrade per i 19 anni che mancano alla fine naturale del contratto. Così si arriva a un valore poco inferiore ai 20 miliardi di euro. Sui quali, nella migliore delle ipotesi, lo Stato otterrebbe uno sconto del 10% dell’indennizzo da versare a Autostrade se la magistratura attestasse che, effettivamente, le responsabilità sono da attribuire al concessionario. In ogni caso, l’Italia dovrebbe pagare un conto salato per la revoca.
Il cavillo trovato dal Mit
L’ipotesi delegificazione per rendere nulle le clausole dell’articolo 9 avrebbero trovato riscontro positivo nei pareri dei consulenti legali del ministero dell’Infrastrutture. Alcuni giuristi hanno affermato, infatti, che la clausola sia nulla poiché non fa differenza tra la revoca per «gravi colpe» e gli altri tipi di revoca. E, quindi, non rispetterebbe il codice degli appalti pubblici che invece prevede una netta distinzione tra le revoche. Qualora i giudici accogliessero questa interpretazione, potrebbe essere tolta la concessione ad Autostrade senza che lo Stato versi l’indennizzo multimiliardario alla società. Bisognerà attendere la sentenza del Tar del Lazio: se questa ipotesi non andasse in porto, la revoca della concessione risulterebbe insostenibile per le casse dello Stato.