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I calciatori sono più a rischio di contrarre la Sla da giovani?

04 Dicembre 2019 - 06:27 Juanne Pili
I calciatori sono esposti al rischio di Sla? Alcuni studi lo suggeriscono, ma non esistono conferme

Si è spento la notte scorsa il calciatore “Giovannone” Bertini all’età di 68 anni. Era affetto da Sindrome laterale amiotrofica (Sla), malattia diagnosticatagli nel 2016. L’ex giocatore della Roma, dell’Ascoli e della Fiorentina ci ricorda anche come questa malattia che colpisce i motoneuroni, sembra essere particolarmente associata ai calciatori professionisti. Si torna così a parlare di «malattia dei calciatori». Ma l’attività sportiva a livello professionale può essere davvero un fattore di rischio nell’insorgere di questa malattia?

Lo studio dell’Istituto Mario Negri

Secondo i dati del Omar (Osservatorio malattie rare), in Itala la Sla colpisce mediamente da 3 a 5 persone ogni 100mila abitanti. Si stimano attualmente 3500 malati (cinquemila secondo AriSla) e si calcola che dovrebbero esserci mille nuovi malati ogni singolo anno. I casi risultano in aumento perché grazie ai progressi della ricerca le diagnosi sono molto più accurate. Lo studio che ha maggiormente acceso i riflettori sulla possibile correlazione tra Sla e Calcio è quello dell’Istituto Mario Negri, pubblicato nel 2013 su Amyotrophic Lateral Sclerosis and Frontotemporal Degeneration, condotto da Ettore Beghi, Elisabetta Pupillo, Letizia Mazzini e Nicola Vanacore.

Riguarda 32 casi, nell’arco di un periodo che va dalla stagione 1959-1960 fino a quella 1999-2000 (circa 40anni), su un totale di 23875 calciatori – non solo di Serie A – ma anche dei campionati della B e della C. Sorprende soprattutto l’età media in cui è stata diagnosticata la malattia: 43 anni, a fronte di una media nella popolazione generale di 62 anni.

«Tutti i calciatori professionisti che hanno praticato nel periodo 1959–2000 sono stati identificati attraverso gli archivi delle carte da calcio Panini, il principale editore italiano di carte da calcio – spiegano i ricercatori – Questi individui rappresentano la coorte esposta. Per ogni giocatore sono stati registrati la data e il luogo di nascita, il ruolo e la storia della squadra.

Ogni giocatore è stato seguito dall’anno di inizio dell’attività professionale. I casi di SLA incidente tra gli esposti sono stati tutti i calciatori a cui è stata diagnosticata la SLA durante il periodo 1959–2016. Il tasso di incidenza atteso era il numero di casi / 100.000 persone / anno previsti nella coorte utilizzando una popolazione italiana ben definita come riferimento. Il rapporto di incidenza standardizzato (SIR) era il rapporto tra il tasso di incidenza osservato e atteso.

Risultati: 33 persone nella coorte hanno sviluppato SLA. Il numero di casi previsti era 17,6. Il SIR era 1,9 (IC 95% 1,3-2,6) nell’intero campione e 4,7 (IC 95% 2,7–7,5) nei soggetti di età inferiore a 45 anni alla diagnosi. L’età media alla diagnosi era di 43,3 anni. Rispetto all’età media di insorgenza della SLA nella popolazione generale (62,5 anni; intervallo 56,0-72,2 anni), la malattia negli ex calciatori si è verificata 21,9 anni prima».

Limiti dello studio

Lo studio ha diversi limiti, come è stato fatto notare analogamente riguardo ad altri lavori precedenti (come quello di Adriano Chiò del 2005), su quella che sembra essere una “maledizione” che colpirebbe i calciatori professionisti italiani. Si basa sui i calciatori elencati negli albi delle figurine Panini, ma non è detto che comprenda sempre tutti gli sportivi dei campionati italiani, incluse le riserve. L’età media più bassa potrebbe spiegarsi col fatto che essendo degli sportivi professionisti hanno maggiori controlli, inoltre più andiamo a ritroso nel tempo, minore è l’accuratezza delle diagnosi.

Lo stesso studio ha come titolo un dubbio più che una certezza: «Are professional soccer players at higher risk for ALS?». Ed è comprensibile che gli autori siano prudenti in merito ai risultati. Si tratta di una ricerca basata su dati indiretti, provenienti principalmente da fonti giornalistiche e giuridiche, come spiegava la cofirmataria Elisabetta Pupillo intervistata sui risultati:

«[I dati] potrebbero non essere definitivi perché alcuni casi potrebbero essere sfuggiti alle inchieste giornalistiche e a quelle giuridiche, le fonti principali delle nostre informazioni». 

Attività sportiva e Sla: «prove inconcludenti»

Questo non esclude però che praticare sport ad alti livelli non possa rappresentare un fattore di rischio. Anche in altri sport come il Rugby si registra, per esempio, un’alta incidenza di sintomi dovuti ai maggiori traumi che si subiscono nello svolgimento di questo sport, quali demenza, sintomi psichiatrici e cambiamenti dell’umore.

Al momento però non sembrano esistere sufficienti prove. Stando a una analisi sistematica pubblicata su Neuroscience & Biobehavioral review tre anni dopo lo studio di Beghi e Pupillo, «le prove sulle misure cumulative di attività fisica come fattore di rischio per la Sla rimangono inconcludenti».

Non di meno, i revisori fanno notare – compatibilmente col lavoro dei ricercatori del Mario Negri – che «gli studi di coorte riportano un numero significativamente più elevato di casi di Sla nel calcio professionale e nei giocatori di football americano».

Segnaliamo anche lo studio condotto dall’Istituto superiore di Sanità nel 2018: riguarda 29 casi accertati in un arco di tempo compreso tra il 1950 e il 2016.

Nei risultati viene confermata un’insorgenza giovanile piuttosto significativa. Si parla inoltre di una una «possibile relazione tra calcio e rischio di Sla», raccomandando la «urgente necessità» di ulteriori ricerche sul tema.

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