È giusto continuare a parlare di femminicidi (e non invece di maschicidi)? Una risposta a Franca Leosini

Hanno fatto discutere le parole di Franca Leosini che, in un’intervista a Open, ha definito il termine femminicidio «una brutta parola». In Italia ogni anno oltre 100 donne vengono uccise. Perchè donne

Femminicidio non significa semplicemente omicidio di una persona di sesso femminile. Femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto tale, in una società che, dispiace dirlo, in alcuni casi le considera “oggetti” di cui si è proprietari, un “qualcosa” da controllare che, se sfugge al proprio controllo, diventa l’elemento scatenante dell’azione criminosa. Guai a parlare di omicidi “passionali”. No, non si uccide per amore. Quello è possesso. Ed è d’accordo anche Franca Leosini, giornalista e conduttrice, che stasera torna in tv con “Storie maledette”, programma di Rai 3 che, proprio nella prima puntata, racconterà il delitto di Dina Dore, soffocata con un nastro da imballaggio davanti alla figlia di 7 mesi nel marzo del 2008. Il marito, Francesco Rocca, è stato condannato all’ergastolo per essere stato il mandante dell’omicidio.


«Mi vengono i brividi a sentire la parola femminicidio»

Un passaggio della intervista a Open di Franca Leosini, però, ha suscitato polemiche. A un certo punto, la conduttrice di “Storie maledette” ha detto: «Basta parlare di femminicidio. Mi vengono i brividi a sentire questa parola, è proprio brutta dal punto di vista lessicale. Si tratta di un omicidio. E poi, mi scusi, ma esiste il maschicidio?».


«Un’affermazione di questo tipo ci riporta indietro di 20 anni»

A risponderle è Antonella Veltri, presidente di Di.Re, la rete nazionale dei Centri antiviolenza: «Ci sono dei motivi ben precisi per cui è stato coniato il termine femminicidio negli anni Novanta, e rigettarlo come una “brutta parola” non cambia la realtà dei fatti, anzi finisce solo per contribuire a occultarla. Un’affermazione di questo tipo ci riporta indietro di 20 anni e rafforza solo chi continua a negarlo».

Sono oltre 100 i femminicidi ogni anno in Italia, un numero che, purtroppo, «non accenna a diminuire al contrario degli altri reati violenti»: «Secondo una ricerca dell’Eures il 78% delle donne assassinate è stato ucciso tra le mura domestiche, principalmente da compagni o ex partner, già denunciati dalle vittime nel 28% dei casi. Non c’è confronto con gli omicidi degli uomini, che continuano a essere uccisi soprattutto da altri uomini, per motivi non legati al genere, ma piuttosto alla criminalità», spiega ancora la presidente di D.i.Re.

«Emergenza nazionale»: 103 donne uccise nel 2019

E il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo ha confermato nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario parlando di «emergenza nazionale». Nonostante il calo degli omicidi con uomini come vittime «è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur in diminuzione, i cosiddetti femminicidi». Le donne uccise nel 2017 sono state 131; 135 nel 2018 e 103 nel 2019: «Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi di uomini, in maniera davvero impressionante». Nel 2012 erano state 157, nel 2013 179, nel 2014 152, nel 2015 141, nel 2016 145. L’ambiente in cui si consumano questi reati è soprattutto quello delle mura domestiche e gli omicidi avvengono sempre per mano di mariti e fidanzati.

«L’amore non è possesso»

La parola femminicidio, dunque, «indica l’uccisione di una donna in quanto donna, da parte di un uomo che la considera di sua proprietà e che per questo ritiene di poter decidere tutto, anche se deve vivere o morire» spiega Antonella Veltri. Questo significa riconoscere una natura culturale e strutturale alla violenza maschile contro le donne. E, senza andare troppo lontano, a parlare è la cronaca. Il 19 aprile, in pieno lockdown, una donna è stata uccisa dal suo compagno per motivi di gelosia. Lei avrebbe voluto interrompere la loro relazione ma, dopo le misure imposte dal governo per contenere la pandemia del Coronavirus, ha lasciato che l’uomo trascorresse la quarantena a casa sua. Ed è lì che è stata uccisa nel peggiore dei modi. Con un coltello.

«L’amore non è violenza o possesso» come ha detto a Open Marika, oggi 19enne che, nell’agosto 2014, quando aveva appena 14 anni, è stata accoltellata dal padre nel sonno. La sorellina, Laura, è morta, lei si è salvata in extremis. Il papà voleva ucciderle entrambe non perché le odiasse ma solo per punire la moglie, Giovanna, che aveva osato prendersi una pausa di riflessione dopo aver scoperto una sua presunta relazione extraconiugale. Un movente da far rabbrividire.

«Nel paese in cui vivo mi hanno fatto credere che quasi quasi me la fossi cercata. Che se fossi stata zitta, che se non lo avessi affrontato quando ho scoperto tutto, allora Lauretta oggi sarebbe qui con me. Queste parole mi hanno ferita, sono ingiuste» ha raccontato la mamma delle bimbe a Open.

Le donne che hanno chiesto aiuto durante la quarantena forzata

Attenzione: femminicidio indica anche «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». Non c’è solo la violenza fisica ma anche quella psicologica.

Durante il lockdown molte sono le donne che hanno chiesto aiuto ai centri antiviolenza, spesso «mentre buttavano la spazzatura o sussurrando dal bagno dopo aver aperto l’acqua della doccia» per non farsi scoprire dai mariti violenti costretti a stare a casa. Dati alla mano, tra il 6 aprile e il 3 maggio 2020 è cresciuto il numero di donne che per la prima volta si sono rivolte a un centro antiviolenza della rete D.iRe per chiedere sostegno. Sono state 2.956, di queste 979 per la prima volta, pari al 33% del totale.

In copertina ANSA/Guido Montani | Franca Leosini

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