Donne manager, il problema non è il master Mba: «Le quote rosa funzionano molto di più»

Alla fine degli Stati generali è emersa l’ipotesi di pagare la formazione manageriale a 500 donne. Ma i dati dicono che a frenare l’ingresso ai vertici delle aziende non è il percorso di studi. Ne abbiamo parlato con Irene Natividad, presidente del GlobeWomen Research and Education Institute

«Questa credenza che sarà il merito a portare le donne finalmente ai vertici delle aziende… Non è così. Non sta funzionando, è evidente». Altro che bonus per la formazione, fosse pure per i leggendari (e costosi) master in Business Administration. Irene Natividad – femminista americana, presidente del Global Summit of Women e Chair del GlobeWomen Research and Education Institute, studia questi temi da più di 20 anni e non ha dubbi.


«Servono le quote: solo “imponendo” per legge le quote stiamo riuscendo nel mondo ad avere una presenza femminile in aumento nelle aziende. Succede da voi in Italia e sta succedendo in Francia», dice Natividad. Negli Usa, invece, dove i processi spesso seguono il percorso opposto – non un’imposizione dall’alto (statale) al basso, ma from the bottom to the top – il cambiamento passa piuttosto, spiega, attraverso la rivendicazione di bacini di voti e la moral suasion.


Mba e donne manager

Il tema della parità di genere nel management torna ciclicamente. Solo a guardare gli ultimi mesi l’ha fatto ancora: prima complice la (inizialmente) scarsa presenza di donne nelle task force che affiancano governo e politica nella delicata gestione della crisi epidemiologica causata dal Coronavirus. Poi nell’attesa dell’annunciato piano di rilancio sul tavolo del governo. L’Italia coglierà l’occasione per cambiare passo? E come?

Il premier Giuseppe Conte, in chiusura degli Stati Generali convocati dal Governo, ha prima parlato dell’idea di concedere 500 euro alle donne “aspiranti manager” per favorire la loro carriera lavorativa. Salvo poi chiarire che il percorso, la suggestione su cui lavorare, sarebbe piuttosto quella di assegnare un voucher di 35mila euro a 500 donne per frequentare un master di supporto alla propria carriera. Lapsus, confusione, gaffe, idee: che ci voglia questo e altro, e che quello del management femminile sia un tema su cui lavorare, lo raccontano i fatti e i numeri. In Italia ma anche all’estero.

I dati

Nel mondo qualcosa si muove. Lentamente. «Quest’anno, il 39,4% di chi occupa posti di dirigenza nel settore privato in Australia è donna», dice Libby Lyons, direttrice della Workplace Gender Equality Agency australiana. «Sulla base di tale tendenza, tra 20 anni l’Australia avrà un equilibrio di genere alla maggior parte dei livelli di management».

Vent’anni: di decennio in decennio? «Quando mi dicono che serve tempo non ci credo», chiosa Irene Natividad. «Dobbiamo piuttosto imboccare la strada della parità con decisione. La cultura è sempre la stessa in tutto il mondo, ancora patriarcale. Senza azione, il cambiamento è destinato a non arrivare».

Secondo l’ultimo monitoraggio di Corporate Women Directors International (CWDI) le donne occupano ora il 21,4% di tutte le posizioni di direzione nei consigli di amministrazione delle 200 società più grandi al mondo – la Fortune Global 200. Un numero che, dal 2004, è raddoppiato (era al 10,4%) in una statistica che coinvolge 26 paesi.

Ed è l’Europa a guidare il cambiamento. Dal 2004, si legge, la percentuale complessiva di donne nei consigli di amministrazione delle società europee è aumentata «enormemente» – dal 9,1% al 32,1%, in gran parte grazie a iniziative nazionali per accelerare l’accesso delle donne nei board pubblici e privati.

Di più: in barba ai pregiudizi, sono Francia e Italia a rappresentare al momento, dice il CWDI, «i maggiori successi in Europa dal 2004 a oggi». Le società francesi di Fortune Global 200 sono passate dal 7,2% al 43,4%, mentre le società italiane sono passate dall’1,8% al 34,8%.

«La formazione non è il solo passaggio su cui puntare. C’è uno sbilanciamento nei modelli: pensiamo banalmente ai modelli di cura», ragiona Alessia Coeli, responsabile formazione dei Altis, Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica. Pensiamoci ancor più in tempi di pandemia, con le scuole chiuse e l’intero sistema che ancora una volta si basa sul lavoro di cura femminile.

«La Francia è molto più avanti rispetto all’Italia, in termini di approccio complessivo al tema», nota Mariolina Coppola, presidente del Soroptimist International d’Italia. «Pensiamo al welfare francese, e al fatto che lì le donne non devono scegliere – non necessariamente, almeno – tra carriera, lavoro e famiglia. È innegabile: c’è un’altra cultura».

La stessa cultura, chiosa Coppola, che è alla base di quelle aziende che, dalla Silicon Valley a realtà come Bottega Verde, per esempio, danno la possibilità di accedere ad un massimo di 36 mesi di congedo parentale complessivo ai dipendenti italiani. A prescindere dal genere».

Facebook | La presidente Mariolina Copppola

Dall’altra parte dell’Oceano le grandi società – Stati Uniti in testa, con qualche realtà significativa in Brasile e Messico – hanno dominato la Fortune Global 200 nel 2004 e hanno guidato a livello globale i numeri della leadership femminile al 17%. Ma nel 2017, si legge ancora nell’ultimo report di CWDI, la percentuale di donne nei board di queste aree è cresciuta solo del 7,5% al ​​24,5%: a un tasso medio di appena il 0,5% all’anno.

«Sebbene vi siano molti dialoghi e sforzi per aumentare la rappresentanza delle donne nei consigli negli Stati Uniti e, in misura minore, in Brasile e Messico, non è emerso alcun programma a livello nazionale», sottolinea Corporate Women Directors International.

Male va poi nella regione Asia-Pacifico, dove però risiedono oggi la maggior parte delle 200 più grandi società del mondo: la rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione è solo del 7,4%, anche se il tasso di crescita, in compenso, è buono, visto che la percentuale nel 2004 era dello 0,9%. Ma poche sono le iniziative per migliorare la situazione nella regione.

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Master in Business Administration?

I dati dell’ultimo Mba della Bocconi di Milano parlano per il 2020 di 93 partecipanti, un’età media di 29 anni e una percentuale di presenza femminile al 33%. Allo Strategic Management for Global Business – SMGB, la presenza femminile «è alta», racconta Alessia Coeli. Mentre all’Executive MBA della Cattolica, in collaborazione con 24 Ore Business School, «lo è meno, per quanto sia un dato in crescita. Quindi vedo positivamente la proposta di eventuali incentivi», aggiunge Coeli.

«Ben vengano gli Mba, per carità, e gli incentivi per la parità alla partecipazione. Ma le donne non hanno alcuna carenza da un punto di vista di formazione. Anzi», dice dagli Stati Uniti Irene Natividad. «Si può fare di più, certo. Ma che a me risulti, non ci sono particolari incentivi per una maggiore partecipazione femminile agli Mba negli altri paesi», aggiunge. «Non è una questione di meritocrazia: il mondo è già pieno di donne perfettamente equipaggiate per essere manager ai vertici delle aziende».

«Abbiamo ingegnere, manager, fisiche, imprenditrici: non è la formazione il punto, anzi», conferma dall’Italia Simona Cuomo, docente del corso “Essere leader al femminile” della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Milano in collaborazione con il Soroptimist International d’Italia.

Di certo indietro (causa pandemia) non si deve tornare. «Non possiamo lasciare che Covid-19 porti via i quello che fino a questo momento abbiamo così duramente conquistato», scrive su Forbes Elissa Sangster, CEO di Forté, non profit che lavora per favorire carriere soddisfacenti e significative per le donne attraverso l’accesso all’istruzione aziendale, allo sviluppo professionale e a una comunità di donne di successo.

«Per diventare più forti, le aziende e le scuole di business dovrebbero tenere fede alle loro missioni e fare in modo di costruire ambienti diversi che favoriscano l’empowerment delle donne. E i futuri studenti e le future studentesse MBA non dovrebbero rinunciare ai loro sogni».

Le quote rosa

Il cambiamento, in Europa, viene favorito dalle leggi sulle quote rosa. Non piacciono a molte – e a molti – ma di fatto, sottolinea Irene Natividad, stanno funzionando. Dal 2004, il numero di paesi con quote legislative per le società quotate in borsa o di proprietà statale è passato da 7 a 24. Di questi, 17 sono in Europa, altri tre sono in Asia e due in Africa e in Medio Oriente, sottolinea Corporate Women Directors International.

I paesi che prevedono per legge le quote rosa hanno in media il 33% di rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione a fronte del 17,1% dei paesi che non le prevedono. paesi senza quote, una differenza del 15,9%. I tassi di aumento sono maggiori e più rapidi nelle società Fortune Global 200 con sede in paesi con quote.

E in Italia?

Secondo il primo Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020 sulle donne ai vertici delle imprese, realizzato in collaborazione con l’Inps per studiare l’effetto della legge 120/2011 sulle quote di genere – legge recentemente “rinnovata” e nota come Golfo-Mosca – dopo l’aumento seguito all’attuazione che ha portato per la prima volta nel 2017 il numero delle donne nei board delle società quotate a essere maggiore di un terzo rispetto al totale dei membri, nel 2019 la crescita ha subito un rallentamento. I dati restano comunque positivi e le donne nei cda delle società quotate in Borsa sono passate da 170 nel 2008 (il 5,9%) alle 811 di oggi (il 36,3%).

Il problema è quello «scalino rotto» in cui una donna (quasi) immancabilmente inciampa mentre sale e cerca di arrivare a infrangere il “tetto di cristallo” che la separa dal vertice, dice Mariolina Coppola. «Step dopo step, le donne vengono eliminate. E succede dappertutto, anche nelle realtà che dovrebbero per legge essere ‘guardiane’ della parità di genere».

C’è la vita privata, la conciliazione vita-lavoro, la famiglia, la gravidanza, la cura, la cultura. Il copione ben noto. «Ma al di là della capacità delle donne di conciliare, c’è certamente una scelta maschile di ruoli di vertice: le donne arrivano in alto, ma mai “troppo” in alto», aggiunge Coppola. «Arrivano ai ruoli intermedi. Non oltre. E succede in tutto il mondo», conferma Irene Natividad.

«Se manca la sanzione», quella per esempio imposta appunto dalla legge Golfo-Mosca in Italia o dal suo corrispettivo francese, «i vertici “maschili” tenderanno ad autopreservarsi». Eppure più leadership femminile farebbe bene all’intero sistema: i dati di un monitoraggio sulle aziende in Australia effettuato in questi giorni – per esempio – lo conferma.

I modelli

E poi. «C’è una cronica mancanza di modelli imprenditoriali femminili in Europa» e non solo. «Quando abbiamo chiesto ai giovani nel Regno Unito e in Francia se potevano citare un modello imprenditoriale femminile i cui valori e ambizioni fossero allineati ai propri, solo il 2% ci è riuscito. In Germania, questo dato scende all’1%», spiega l’imprenditrice britannica Alice Bentinck, cofondatrice di Entrepreneur First, incubatore di startup con sede a Londra, in un intervento su Euronews.

Wikimedia | Alice Bentinck

Un vero «peccato», secondo Bentinck, gacché «le generazioni più giovani di oggi sono più ambiziose rispetto a quella dei loro genitori e hanno una mentalità molto più imprenditoriale, secondo la nostra indagine globale».

La mancanza di modelli è ancora più evidente in settori come quello tecnologico – non a caso Bentinck lavora da anni anche al programma CodeFirstGirls: lì dove le donne sono sottorappresentate ed è quindi ancora più probabile che i giovani talenti femminili si perdano e disperdano. «I giovani con sogni da leader possono cercare ispirazione in figure come quelle di Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sergey Brin ed Evan Spiegel. Ma le ragazze?».

«Quando mi sento dire da una donna ‘non voglio essere una quota rosa’ rispondo: via!», sorride vivacemente Irene Natividad. «La quota rosa è una porta. Dobbiamo solo spingerla ed entrare».

In copertina Unsplash | S O C I A L . C U T

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