Referendum costituzionale, dalla Consulta via libera all’election day. Ecco su cosa voteremo

Con la riforma i deputati alla Camera scenderebbero a 400 dagli attuali 630, mentre i senatori diventerebbero 200 da 315

La Corte costituzionale ha dato il via libera all’election day del 20 e 21 settembre, dichiarando inammissibili i quattro conflitti di attribuzione che erano stati sollevati sul taglio dei parlamentari e sul relativo referendum, oltre che sull’abbinamento della consultazione alle elezioni Regionali. Una conferma (scontata, a dire il vero) che arriva nei giorni in cui il dibattito sul quesito referendario si fa più insistente. Si voterà quindi contestualmente per le Regionali e per il referendum confermativo della riforma del taglio dei parlamentari.


per rendere il parlamento più efficiente e tagliare 345 poltrone, No perché un taglio dei parlamentari tout court, slegato da una complessiva riforma istituzionale (ed elettorale), non lo renderebbe affatto più efficiente ma causerebbe distorsioni alla nostra democrazia: in estrema sintesi sono queste le posizioni, da una parte della barricata e dall’altra, nel mese che precede l’appuntamento alle urne.


Certo ai più potrà apparire strano, se non fuori luogo, parlare di leggi elettorali e numero di parlamentari nel pieno di una grave crisi sanitaria ed economica. Ma il tema, a ben vedere, non è affatto di poco conto. Oltre alle implicazioni in termini di democrazia e rappresentatività, il tema riguarda proprio il funzionamento dell’organismo che è il cuore dei nostri processi decisionali: il Parlamento.

Su cosa voteremo e come

Il quesito che troveremo sulla scheda è semplice:

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?».

Le modifiche in questione prevedono un taglio del 36,5% dei componenti di ambedue i rami del Parlamento: alla Camera si passerebbe da 630 a 400 deputati, mentre al Senato da 315 a 200 seggi elettivi. Attenzione però, perché non si tratta di un referendum abrogativo (molto comune nella storia repubblicana), ma di un referendum confermativo: il varrà per confermare la riforma, il No per stopparla.

La riforma prevede contestualmente una riduzione dei parlamentari eletti nella Circoscrizione estero, che passano da 12 a 8 alla Camera e da 6 a 4 al Senato. Sempre per quanto riguarda il Senato, che da Costituzione è eletto su base regionale, il numero minimo di senatori per ciascuna Regione scende da 7 a 3. Invariati invece i seggi assegnati al Molise (2) e alla Valle d’Aosta (1). Nella riforma inoltre le provincie autonome di Trento e Bolzano vengono equiparate alle Regioni.

Si fa poi chiarezza definitiva sul numero massimo di senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica, che in Aula non potranno essere più di cinque. Terminerebbe quindi l’annosa querelle per la quale, a seconda dell’interpretazione della norma, il limite di cinque senatori a vita poteva essere inteso o come limite massimo di presenti in Aula, oppure come limite massimo di nomine a disposizione di un singolo capo dello Stato. Questa seconda interpretazione fu seguita dai presidenti Sandro Pertini e Francesco Cossiga, con le cui nomine si raggiunse il numero totale di undici senatori a vita a Palazzo Madama.

Non è previsto il raggiungimento di un quorum, a differenza del referendum abrogativo (50% + 1 degli aventi diritto). La consultazione sarà dunque ritenuta valida indipendentemente dalla partecipazione o meno della maggioranza degli elettori. Originariamente previsto per il 29 marzo scorso, il referendum è stato rimandato a causa dell’emergenza provocata dalla pandemia di Coronavirus.

In realtà se ne parla da anni

Di riforma costituzionale che intervenga sul bicameralismo perfetto e – tra le altre cose – sul numero dei parlamentari si discute da anni. E non sono nemmeno mancati i tentativi. In realtà all’entrata in vigore della Costituzione, nel 1948, non era previsto un numero massimo di deputati e senatori. Tutto cambia nel 1963, quando durante il governo Fanfani IV viene approvata la riforma costituzionale che fissa a 630 il numero dei deputati e a 315 il numero dei senatori.

Ma con l’aumento di eletti ed elezioni (nel 1970 le prime regionali e nel 1979 le prime europee), si inizia anche a discutere di una riduzione dei rappresentanti in Parlamento. A partire dalla IX legislatura (1983-1987, governi Craxi), si ipotizzano riforme per superare il bicameralismo perfetto e, contestualmente, rimodulare il numero degli eletti. Da lì in poi saranno costanti i tentativi, tra bicamerali e progetti di riforma costituzionale, mai andati in porto.

Le ragioni del sì

A guidare il fronte del Sì è il Movimento 5 Stelle, che del taglio alle poltrone e ai costi della politica ha fatto, fin dalle origini, uno dei propri cavalli di battaglia. Chi si schiera a favore fa osservare come, con questo taglio, Camera e Senato saranno resi più efficienti. «Oggi alla Camera – si legge sul Blog delle Stelle – ci sono 14 commissioni permanenti, divise per materia e ognuna è composta da quasi 50 persone. Poi tutti i 630 deputati lavorano in Aula. Ognuno di essi è un legittimo portatore di emendamenti, istanze a volte di ordine generale a volte particolaristiche. Sono troppi! Così è difficile lavorare, il rischio di un dibattito infinito e troppo frastagliato è sempre dietro l’angolo».

Insieme al M5s a favore della riforma si schierano anche Lega e Fratelli d’Italia. Così come il Partito democratico che però chiede, contestualmente, che si arrivi ad una riforma elettorale in senso proporzionale, così da accompagnare adeguatamente in termini di rappresentatività il taglio dei parlamentari. Altro nodo questo per il premier Giuseppe Conte da sciogliere a settembre.

Le ragioni del no

I comitati e i partiti che si oppongono alla riforma, tra cui Azione e +Europa, sollevano molte criticità. Riducendo in questo modo il numero dei parlamentari sarebbe minato il principio della rappresentanza, aumentando la distanza tra elettori ed eletti. L’Italia infatti scivolerebbe all’ultimo posto in Europa nel rapporto tra deputati e abitanti, con 0,7 deputati ogni 100.000 abitanti.

I detrattori della riforma osservano anche che, con la riduzione del 37% degli eletti, si consegnerebbe il lavoro delle commissioni a pochi membri di pochi partiti. Il taglio dovrebbe essere quindi accompagnato da una più ampia riforma istituzionale, oltre che da una nuova legge elettorale. Vengono poi fatte osservare diverse distorsioni, tra le quali collegi molto più grandi e una mancata proporzionalità nella riduzione degli eletti tra le Regioni. Alcune infatti – per esempio Umbria e Basilicata – perderanno quasi il 60% dei seggi, su una media pari al 36,5%. In Trentino Alto Adige invece la riduzione sarà solo del 14,3%. 

Dal fronte del No, a titolo di esempio, è stato osservato come in Trentino, con 170mila abitanti, si potrà eleggere un senatore, mentre in Calabria ce ne vorranno 335mila. Il Trentino Alto Adige potrà quindi eleggere almeno 6 senatori, esattamente come la Calabria nonostante il maggior numero di abitanti.

I risparmi derivanti dalla riforma

Ultimo appunto quello che riguarda i risparmi sui costi della politica, tema sul quale fanno leva i sostenitori del Sì. Secondo l’Osservatorio conti pubblici italiani il risparmio netto generato dall’approvazione della riforma sarà di circa 285 milioni a legislatura o 57 milioni annui, pari soltanto allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana.

Gli italiani avranno ancora un mese per ascoltare le ragioni di una e dell’altra parte. Poi a loro l’ultima parola.

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