Referendum, lo scrittore Bazzi: «Voto no a un provvedimento sciatto e demagogico. I politici? Vengano a vivere con noi nel 2020» – L’intervista

Abbiamo chiesto a uno scrittore, un fumettista e uno ricercatore in economia, under 35, cosa pensano del taglio dei parlamentari e, in generale, della classe politica italiana. Cominciamo con l’autore di «Febbre», finalista del Premio Strega 2020

L’election day è arrivato: oltre alle consultazioni regionali e comunali, circa 50 milioni di italiani sono chiamati a esprimersi sul quesito referendario: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?».


In estrema sintesi, si chiede ai cittadini di approvare o meno la riduzione del numero di parlamentari, da 945 a 600. I deputati, da 630, passerebbero a 400, mentre i senatori da 315 diventerebbero 200. Jonathan Bazzi, finalista del Premio Strega 2020 con Febbre, il suo romanzo d’esordio, ha scelto di votare «no» al referendum. Ecco perché.


In generale, consideri l’efficienza del Parlamento italiano uno dei problemi principali del sistema Paese?

«Sicuramente lo è, anche se la lista dei problemi del Paese è, ahimè, corposa. Il Parlamento italiano allo stesso tempo riflette e produce la dispersione, le lungaggini e la nebulosità che dominano il nostro sistema governativo e legislativo, ma non credo affatto sia un problema di numeri, di eccesso di parlamentari. Serve una riforma che lo renda allo stesso tempo più agile, più rappresentativo – anche dal punto di vista della parità di genere – e più efficiente».

Voterai sì o no al referendum? Perché?

«Voterò no, perché lo trovo il risultato di un’iniziativa populista e priva di visione, un provvedimento in fin dei conti più che blando, e grezzo, appiattito sulla contingenza e su ragioni di demagogia».

Cosa ti aspetti dalla classe politica che governa il Paese?

«Che inizi a sollevare lo sguardo dai giochi di partito, dal marketing propagandistico, che venga a vivere con noi nel 2020, e che si accorga di tutte le cose che ci sono tra il cielo e la terra e che i loro programmi neppure sfiorano. Insomma, che non sia più la classe politica che governa il Paese. I politici italiani dovrebbero essere più istruiti, più contemporanei, e dotati di più immaginazione. E dovrebbero essere più interessati a ricomporre le grandi fratture della nostra società, che negli ultimi anni hanno iniziato a essere delle voragini».

Qual è il tuo rapporto con la politica?

«Direi intermittente. Alterno periodi di freddezza e relativo disinteresse a momenti di maggior coinvolgimento e coscienza di ciò che accade. Credo di avere una buona coscienza politica, soprattutto in riferimento alle questioni legate al potere e ai suoi abusi, ma sono anche un po’ selvatico, solitario. Questo fa sì che mi trovi meglio a perorare le cause in cui credo in autonomia, con la scrittura o i social, piuttosto che unendomi a partiti, associazioni o gruppi. Mi rendo conto che questo ha dei limiti, ma tant’è».

Pensi che in Italia ci sia un problema di democrazia?

«Credo che in Italia ci sia sempre stato un problema di democrazia. La democrazia senza una dose di autodisciplina è una dimensione difficile da preservare e implementare, e noi siamo gente molto poco disciplinata. Questo alimenta, ha sempre alimentato, le spinte personalistiche e autoritarie, la comparsa di capibranco, padri padroni. Poi ovviamente in questo panorama generalissimo ci sono alti e bassi: prima di questo governo abbiamo attraversato un momento decisamente desolante, ora ci troviamo in una sorta di stallo, di zona grigia. Speriamo che il futuro segni una tendenza migliore di quelle che abbiamo visto negli ultimi anni».

Ti sembra che i politici, oggi, abbiano abbastanza a cuore il futuro dei giovani?

«Per niente».

Cosa possono fare invece i giovani per dare il proprio contributo alla vita politica, sociale ed economica del Paese?

«Sperimentare molto, prima, e poi scegliere una, o due cose, che si amano e seguirle con ostinazione. Un Paese riparte se le energie creative riprendono a circolare. E poi ovviamente i più giovani dovrebbero trovare le proprie vie d’accesso alla coscienza civica e politica, informandosi, mantenendo gli occhi aperti. Ma sono ottimista. Credo che i social abbiano dato una bella mano in questo senso: sono molti gli attivisti, i divulgatori e i giornalisti, giovani e giovanissimi, in circolazione. Si occupano soprattutto di questioni legate all’identità e alle discriminazioni. Credo che le nuove generazioni siano mediamente più consapevoli e interessate al mondo, uno dei portati positivi della rete e dei social».

Hai mai pensato di trasferirti all’estero per cercare un contesto giuridico ed economico migliore?

«No. Mi piace vivere in Italia e nella mia città, Milano. Penso di trasferirmi all’estero, a volte, ma per altri motivi. Ad esempio il clima: detesto l’estate a Milano».

Vorresti fare un appello alla classe dirigente italiana?

«Vorrei chiedere ai politici italiani di essere più ambiziosi. Arriverete alla fine della vostra carriera e, guardandovi indietro, cosa vedrete? Cosa avrete realizzato? Possibile che non abbiate un afflato di magnificenza, il desiderio di fare cose grandi, importanti, ed essere ricordati per questo? Tenete così poco a voi stessi, a ciò che siete?».

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