Guarire dalla Covid-19 in Somalia, la storia di Muna: «La prima sfida è lo stigma. Ma sarò un modello per la mia comunità» – L’intervista

di Giada Ferraglioni

Guarire dal Coronavirus nel corno d’Africa e sensibilizzare un Paese sulla pandemia: la storia di Muna, una ragazza somala di 24 anni che sta diventando il punto di riferimento della sua comunità

Muna ha 24 anni, vive in Somalia e ha una missione: sensibilizzare il suo Paese in merito alla pandemia da Coronavirus. Da quando il suo tampone ha finalmente dato esito negativo, Muna ha deciso che non c’era più tempo da perdere. Sarebbe diventata un punto di riferimento per la sua comunità e per tutto il Paese, che ancora oggi è alle prese con lo stigma della malattia e i pregiudizi che rendono difficile il contenimento della pandemia.


Era un giorno di aprile quando Muna ha iniziato ad avvertire una certa stanchezza fisica. Febbre, respiro corto, tosse secca. Era appena tornata da un matrimonio a Baidoa, una città a circa 200 chilometri dalla capitale, e non c’era molto da pensarci su: bisognava fare il tampone. Come era chiaro dai numeri in aumento – ma non dalle abitudini dei suoi concittadini, che continuavano a vivere come se la pandemia non esistesse – la Somalia stava diventando uno dei Paesi più colpiti dalla dal Coronavirus di tutto il Corno d’Africa.


«Quando ho scoperto di essere positiva ero estremamente preoccupata», racconta a Open. «Nella mia comunità girava la voce che prendersi la Covid-19 comportasse un altissimo rischio di morte e che gli ospedali non fossero in grado di salvare i pazienti malati. Oltretutto io sono asmatica, il che mi metteva in una situazione di estremo rischio».

Credit: Muse Mohammed

Subito dopo essere risultata positiva, Muna è stata ricoverata al Martini Hospital di Mogadiscio. La convalescenza è stata lunga, travagliata e solitaria. «Ero in condizioni critiche – racconta di quei giorni – e non potevo vedere nessuno, nemmeno la mia famiglia». Le uniche persone a darle supporto sono stati i medici e lo staff dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), che l’hanno seguita fino alla fine della malattia.

Essere positivi alla Covid-19 in Somalia

Da quando nel 2017 è tornata in Somalia dal Sudan, dove è stata 3 anni con l’obiettivo di arrivare in Europa, Muna è stata sempre assistita dallo staff dell’Oim. I cooperanti l’hanno aiutata a reintegrarsi nella comunità e, quando ha scoperto di essere positiva alla Covid-19, hanno dato sostegno psicologico a lei e la sua famiglia. L’avventura, lo sapeva già, non sarebbe stata facile.

Prima dell’arrivo del Coronavirus, la Somalia era già di per sé un Paese complicato. Solo nell’ultimo anno le comunità che lo popolano hanno dovuto fare i conti con inondazioni, invasioni di locuste, carestie e attacchi di gruppi armati. Secondo i dati di Intersos, ci sono due milioni di rifugiati somali nel mondo, un milione di sfollati interni e circa due milioni e mezzo di persone che hanno bisogno di aiuti umanitari.

Il sistema ospedaliero, estremamente fragile, si è trovato a dover fare i conti con l’ennesima emergenza non prevista. «Ci sono pochi medici e sanitari negli ospedali, che non sono abbastanza per i pazienti ricoverati e destinati ad aumentare – spiega Muna – Pochissime persone nella comunità, oltre ai medici, hanno una coscienza di cosa significhi prevenire il Sars-Cov-2».

L’emarginazione dei contagiati

A peggiorare l’orizzonte di crisi umanitaria è arrivata la stigmatizzazione dei malati. Stando all’ong Somali Public Agenda, la paura dell’emarginazione e dell’isolamento ha portato – e porta tutt’ora – molte persone che presentano i sintomi riconducibili al Coronavirus a rifiutare i test e le visite ospedaliere.

«Mi vergognavo di essere malata, c’era chi mi chiamava Muna Corona e fuggiva quando mi vedeva», racconta Muna.«La mia comunità è in gran parte all’oscuro di cosa sia la Covid-19, di come si trasmette», continua. «Mi hanno esclusa da qualsiasi cerimonia o avvenimento. Anche quando finalmente sono guarita, le persone hanno fatto fatica a credermi e hanno continuato a evitarmi».

Sensibilizzare un Paese

Dopo tre settimane di cure, Muna è guarita del tutto. L’esperienza non l’ha buttata giù, anzi. «Sto bene», dice. «Mi sento molto meglio e voglio diventare un punto di riferimento per la mia comunità, così da poter sensibilizzare l’opinione pubblica del mio Pese in merito alla Covid-19». E non ha perso tempo: da quando è stata dimessa, Muna ha già partecipato a diversi gruppi di discussione (Focus group discussion), anche alla radio (Somalia Radio Channels), nei quali ha parlato di come sia possibile prevenire e combattere la pandemia oltre i pregiudizi sociali.

A oggi, i casi confermati sono 2.961. Le vittime collegate alla Covid-19 sono invece 92. La sua missione è fondamentale: in alcuni contesti rurali, ad esempio, la percezione è che mettere la mascherina sia indice di positività al Coronavirus, il che rende le persone meno propense a indossarla. Muna si è fatta carico di una responsabilità importante. Ma con l’aiuto delle ong che la supportano, potrebbe non essere una missione impossibile.

Foto copertina: Oim su Twitter

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