Nel 50% delle province italiane i medici di famiglia non possono richiedere il tampone per il Coronavirus

Nella peggiore delle ipotesi, si innesca un iter senza fine che va dal medico alla Asl, per cui il paziente dovrà aspettare molto tempo prima di fare il test

Nel 50% delle province italiane il medico di famiglia non è autorizzato a richiedere direttamente il tampone per la ricerca biomolecolare del nuovo Coronavirus. Solo oggi, 8 ottobre, in un’intervista rilasciata a la Repubblica, il medico Andrea Crisanti ha ripetuto che per contenere il più possibile un contagio che cresce, inesorabile, è necessario fare più tamponi possibile. «L’aver pensato che era tutto finito perché avevamo 100 casi al giorno è stata un’illusione e nel frattempo non s’è fatto nulla».


Ora il problema è tutto dei medici di base che devono chiedere un tampone. Esistono infatti «norme diverse a livello di Regioni, province o addirittura di singole Asl che determinano una situazione di estrema confusione». Ad evidenziarlo è la Federazione dei medici di medicina generale Fimmg. «In circa il 50% delle province- spiega Paolo Misericordia della Fimmg – il medico può prescrive direttamente il tampone, prendendo anche appuntamento con i drive-in delle Asl per farlo effettuare al paziente e accorciando i tempi. Ma nell’altra metà il medico deve fare la richiesta alla Asl che poi, a sua volta, prenderà in carico il cittadino convocandolo. Un passaggio in più, cioè, che allunga inevitabilmente i tempi».


In un sondaggio condotto dal Centro Studi della Fimmg emerge come questa situazione si ripeta ciclicamente un po’ su tutto il territorio italiano. L’iter trova una valvola di sfogo solo dove c’è la prescrizione diretta del tampone. In quel caso, spiega Misericordia, responsabile centro studi Fimmg, «i tempi sono più celeri perché, con la prescrizione, il cittadino può recarsi direttamente al centro drive-in delle Asl per fare l’esame».

Cosa non funziona

Se non è il medico a prescrivere direttamente il test, la strada si fa più impervia e macchinosa. Sì, perché secondo il protocollo, il medico deve inviare la richiesta al Dipartimento di Prevenzione via email (49% delle province) o registrarla su portale elettronico (42%). Altri sistemi (ricetta SSN, telefonata, Fax) sono praticati solo dal 9% delle province. «Saranno poi i dipartimenti, o gli uffici intermedi preposti, a prendere in carico il cittadino convocandolo per il tampone. Il tutto allungando i tempi».

Dall’indagine emerge inoltre che in un terzo delle province il risultato del tampone è disponibile entro due giorni; in un altro 28% dei casi sono necessari più di 4 giorni. Nell’81% dei casi il risultato del tampone è disponibile attraverso la consultazione di portali elettronici. Non solo: «In alcune province anche i laboratori privati o accreditati sono autorizzati a fare i tamponi, ma in altre no ed anche questo crea confusione», sottolinea Misericordia.

Discorso analogo per le Usca (Unità speciali di continuità assistenziali), che spesso il medico non può attivare. Dai dati raccolti si evidenzia che nel 98% delle province sono state attivate le Usca con i compiti di visita domiciliare per il paziente Covid o sospetto. Il medico di famiglia, però, può richiedere l’intervento delle Usca contattandole direttamente solo nel 42% dei casi. In alternativa, deve inviare una richiesta al Dipartimento Prevenzione (38%) o attraverso un medico coordinatore (8%). Inoltre, solo nel 4% delle province sono al momento attivati ambulatori gestiti dai medici di famiglia specificatamente indirizzati alla valutazione di pazienti con sospetto Covid. «Appare molto difficile riuscire a contrastare con efficacia il riaccendersi di focolai sul territorio se al medico – conclude Misericordia – non viene permesso ancora di prescrivere direttamente l’esecuzione di un tampone».

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