L’Australia accusa 19 suoi militari in Afghanistan: «Sono coinvolti nell’omicidio di civili». Tra le vittime anche bambini – Il rapporto

di Cristin Cappelletti

L’inchiesta è durata quattro anni mezzo e riguarda membri delle forze di difesa. Il processo sarà gestito internamente da tribunali nazionali

Un clima di segretezza, di inganni e fabbricazioni avrebbe permesso ad alcuni membri delle forze di difesa australiane impegnati in Afghanistan di rimanere per anni impuniti dopo l’uccisione di almeno 39 civili. Sono queste le conclusioni presentate ieri dal capo delle forze, il generale Angus Campbell. Secondo la relazione, redatta dal giudice militare Paul Brereton, 19 soldati australiani dispiegati in territorio afgano a fianco della coalizione Usa a seguito dell’invasione americana nell’ottobre del 2001 sono stati coinvolti nell’omicidio di 39 prigionieri e civili, tra cui anche bambini, e nel trattamento «crudele» di altri due. Nell’arco di questi quattro anni le autorità hanno intervistato 423 testimoni e studiato più di 20 mila documenti e oltre 25 mila immagini.



Il rapporto presenta molti dettagli sui singoli episodi. E il generale Campbell, rimarcando quanto contenuto all’interno dell’inchiesta, ha voluto ribadire che «nessuna delle persone uccise era un combattente». Il maggiore Brereton ha invece chiarito che nessuno degli atti compiuti può essere in alcun modo etichettato come «una decisione presa sotto pressione nel pieno della battaglia». L’indagine presume invece che la stragrande maggioranza delle uccisioni si sia verificata mentre le vittime afgane erano detenute o sotto il controllo delle forze australiane.

La pratica del blooding

Secondo la relazione, ai soldati più giovani veniva spesso ordinato dal comandante di pattuglia di uccidere prigionieri come “rito di iniziazione”, una pratica conosciuta come blooding. Sono state anche riportate evidenze che mostrano come alcune delle forze speciali portavano con sé armi, radio e granate non di ordinanza, da piazzare vicino ai corpi di civili uccisi per suggerire che fossero un «obiettivo legittimo» nel caso di eventuali indagini sull’incidente.

Comandanti visti come «semidei»

Segretezza e omertà venivano alimentate anche dal senso di impunità dei soldati. Secondo il rapporto, le forze speciali si sentivano comparti d’élite a cui le normali regole non si applicavano. I soldati più giovani consideravano inoltre i loro comandanti di pattuglia come «semidei». Disobbedire alle loro istruzioni – temevano – avrebbe portato le loro carriere alla rovina. Brereton ha spiegato come sia stato difficile ottenere queste testimonianze in un ambiente altamente compartimentale dove «la lealtà verso i propri compagni e i superiori è considerata fondamentale». Si legge nel rapporto che la «segretezza era vista come un premio, mentre far trapelare informazioni era un’anatema».

Il generale Campbell ha offerto le sue scuse incondizionate al popolo afgano annunciando che da subito il governo si impegnerà a risarcire le famiglie. Ora, il processo sarà gestito internamente da tribunali nazionali. Le autorità hanno deciso di non rivolgersi alla Corte penale internazionale. Una decisione appoggiata anche da Human Rights Watch e da altre organizzazioni non governative locali e internazionali. Il caso australiano non sarebbe isolato. Anche gli Stati Uniti sono indagati per possibili crimini di guerra in Afghanistan dopo che la Corte Penale Internazionale dell’Aja ha autorizzato un’inchiesta. Gli Usa hanno risposto sanzionando la procuratrice a capo dell’indagine.

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