Coronavirus, il virologo Francesco Broccolo: «La carica virale si è abbassata. Test rapidi? Poco affidabili» – L’intervista

di Giada Giorgi

Il virologo dell’Università Bicocca di Milano: «Decisivo il cambio di comportamento della popolazione grazie a restrizioni e mini-lockdown»

Dal laboratorio Cerba di Milano, di cui è direttore, il virologo professor Francesco Broccolo dell’Università Bicocca si fa ancora una volta, come spesso negli ultimi mesi di pandemia, promotore di notizie scientifiche importanti riguardo il virus. Quello che in questi giorni il professore avrebbe rilevato dai tamponi per la Covid-19 effettuati ai pazienti, è di fatto un abbassamento della carica virale. Un dato non da poco se si pensa ai primi giorni di settembre, quando alle porte di una seconda ondata, tra le cose che più si desiderava capire era se il virus fosse diventato più innocuo. Se la malattia cioè fosse cambiata e, con essa, le possibilità di sconfiggerla in modo più rapido ed efficace.


Professore, cosa sta succedendo alla carica virale di SARS-Cov-2?


«È successo che a metà ottobre avevamo raggiunto un picco in cui l’80% dei tamponi positivi che effettuavamo nei nostri laboratori, in cui confluiscono campioni da tutta la provincia di Milano, presentavano una carica virale di oltre 1 milione. Con una parte di questa percentuale che superava il miliardo. Si trattava di cariche altissime che indicavano la presenza di un virus attivo, replicante e, dal punto di vista clinico, anche con un’infezione recente. A oggi quell’80% si è ridotto al 20%. E con questo dato ormai è evidente come la carica virale sia da considerare non un indicatore di prognosi della malattia, ma del non meno importante andamento epidemiologico».

Dunque rivela cosa potremmo aspettarci dalla curva?

«Esattamente. Al 19 agosto, quando tutti eravamo tranquilli, con delle positività intorno al 2%, io vedevo la carica virale impennarsi. Tutti mi hanno risposto con stupore parlando di pessimismo. Dopo pochi giorni però l’ondata è arrivata, confermando quanto avevo notato. A metà ottobre il mio annuncio è stato lo stesso di quello estivo, la carica virale aveva raggiunto livelli altissimi e ora, allo stesso modo, sono contento nel poter rilevare una discesa significativa».

Vuol dire che il virus è mutato o è diventato meno aggressivo?

«Al momento non imputerei l’abbassamento della carica a una diversa fisiologia del virus. Piuttosto al diverso comportamento adottato dagli ospiti della malattia, che dopo restrizioni e mini-lockdown hanno permesso, non solo il calo dei contagi ma anche la riduzione della carica virale. Covid-19 come tutti gli agenti virali è mutato più volte in questi mesi, ma gli studi sui cambiamenti non hanno prove di un potenziamento o al contrario di un abbassamento della carica virale. L’unico impatto attualmente riconosciuto dagli studi scientifici è quello sulla capacità di diffusione e quindi sulla maggiore contagiosità».

Quindi questo abbassamento della carica virale è dipeso dalla popolazione?

«Se il soggetto infettivo ha la mascherina e anche quello ricevente la indossa, considerando che la maschera abbatte di almeno 1000 volte la carica virale, questo ha prodotto una riduzione notevole. In sostanza, chi si contagia lo fa con una dose infettiva più bassa. Ecco ancora una volta dimostrata anche l’importanza, fra tutte le misure, di indossare la mascherina. Credo anche un’altra cosa. La carica virale scesa, in parallelo al calo dei contagi, ci sta facendo registrare dei positivi che sono nella fase terminale della malattia. Rileviamo casi in una situazione detta di “clearance” virale, e cioè con una carica che sta andando verso l’azzeramento».

La fase di “clearance” di cui parla, e quindi di azzeramento dell’infezione, corrisponde anche a un’eliminazione definitiva degli effetti del virus sull’organismo?

«Purtroppo no. Ci sono degli strascichi. L’azzeramento può avvenire in tempistiche differenti. C’è chi deve attendere 10 giorni, a chi avviene dopo 20, chi deve aspettare i 3 mesi per una totale negativizzazione. E questo è un elemento su cui la scienza deve ancora lavorare. Quello che sappiamo è che Covid-19 è un virus che tende a persistere con delle sequele, complicanze cioè che rimangono. Stiamo iniziando a vedere su pazienti assolutamente guariti e asintomatici dei segni clinici, delle cicatrici a livello polmonare che permangono e che non sono neanche così facili da individuare con una semplice tac.

A questo proposito la Bbc ha parlato proprio nelle ultime ore di una tecnica di rilevamento specifico degli strascichi lasciati da Covid-19 nei polmoni, che avverrebbe attraverso un particolare gas chiamato xeno. La scansione polmonare effettuata con lo xeno dovrebbe renderci in grado di chiarire i danni che il virus ha lasciato nei polmoni attraverso la risonanza magnetica. Questo studio pilota è un’importante novità che ci conferma quanto questo virus non escluda complicanze a lungo termine».

Abbiamo carica virale più bassa, ma test antigenici che in questo modo potrebbero perdere ancora più efficacia. Ci spiega quanto rischiamo sulla capacità di screening?

«Le conseguenze sui test rapidi antigenici sono inevitabili, l’abbassamento li rende a questo punto ancora meno sicuri. Quelli che si usano per lo screening utilizzati anche ora dalle farmacie, sono test certo rapidi ma anche poco sensibili. Questa non è certo una novità. Agli inizi di settembre si parlava di una sensibilità al 60%: su 10 casi positivi il test era in grado di poterne individuare 6. Il punto è che questo dato dipende molto dalla carica virale dei soggetti a cui il test antigenico viene effettuato. Avendo ora un trend in di decremento della carica, è evidente che se prima gli antigenici erano poco affidabili, adesso lo sono ancora di più. E se la carica virale continuasse ad abbassarsi in futuro, il test rapido riscontrerebbe sempre più falsi negativi».

Si rischia dunque un aumento del mancato controllo della diffusione del virus?

«Rispetto al mese di settembre, quando avere dei test da poter fare su larga scala era meglio di niente, ora il rischio è quello di un abbassamento dell’attenzione e quindi una risalita dei contagi. Primo pericolo su tutti, il Natale. Pare che tutti i familiari si riuniranno facendo il tampone rapido il giorno prima. Risultando per la maggior parte negativi ci si sentirà autorizzati a trovarsi in contesti di incontri più allargati e magari di togliersi anche la mascherina, forti dell’esito del test antigenico».

Oltre al molecolare però, il metodo rapido è l’unica possibilità che abbiamo. Cosa fare?

«C’è un’altra strada di cui si sta parlando poco ma su cui ho molta fiducia, e non soltanto io. Sono test innovativi di terza generazione, antigenici rapidi ma che usano una metodica nuova: una specie di piccolo chip microfluidico con un lettore a fluorescenza. Non viene letto cioè a occhio nudo ma attraverso una macchinetta che aiuterà a decifrare il risultato. Zaia è stato il promotore di questa metodica, in Veneto so che ne sono stati distribuiti già molti negli ospedali.

Ci sono anche in Piemonte e nelle strutture sanitarie più grandi della Lombardia come Niguarda e Sacco. Al momento ci sono circa 700 macchinette distribuite. In 12 minuti garantiscono una sensibilità quasi come fossero un test molecolare. L’aspetto più difficoltoso è quello che riguarda la processività, la macchina è in grado di leggere un test alla volta. Ma non dimentichiamo che il test antigenico attuale è 1.000 volte meno sensibile del test molecolare».

Si tratta di una possibile nuova frontiera dello screening?

«Dai dati che mi ha gentilmente trasferito il dott. Rigoli dalla Microbiologia Treviso direi proprio di sì. Nelle prossime ore i test arriveranno anche nei nostri laboratori di Milano, li sperimenteremo di persona e potremo valutare ancora meglio».

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