Le liti nel governo sul Recovery Fund: perché ora l’Italia rischia di sprecare i soldi europei

di Federico Bosco

Al Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre l’Italia si presenterà probabilmente con un piano confuso e per nulla condiviso. Quali saranno le conseguenze?

L’approvazione del Recovery Fund è un percorso ricco di ostacoli. Dopo mesi di trattative e veti incrociati irrisolti, le dichiarazioni trionfali ascoltate dopo il vertice di luglio sembrano completamente fuori luogo. Il problema principale adesso è lo stallo sul rispetto dello stato di diritto che ha causato il veto di Ungheria e Polonia. Nella peggiore delle ipotesi, il Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre potrebbe segnare il fallimento del Next Generation EU (Ngeu) e del Bilancio pluriennale (Mff), con l’Unione europea costretta a entrare nel 2021 con il bilancio sottoposto all’esercizio provvisorio.


Più realisticamente, il vertice non sarà risolutivo e si negozierà a oltranza fino alla fine dell’anno, come vuole anche Angela Merkel, consapevole che tra la promessa di un Recovery Fund a 25 e la sua realizzazione c’è un negoziato che dovrebbe ripartire da zero, con esiti incerti, nel bel mezzo delle elezioni nei Paesi Bassi (marzo) e in Germania (settembre).


Al momento l’Italia non rappresenta uno dei principali problemi di Bruxelles, ma non si può certo dire che il governo stia facendo la sua parte in attesa di quei famosi 209 miliardi che non ha ancora deciso come investire. Roma è in preda a una litigiosità che non sembra quella di un Paese dove non sono previste elezioni politiche fino al 2023.

Il rischio di spaccatura nella maggioranza

Ieri, 7 dicembre, il secondo consiglio dei ministri sul Recovery Plan è stato annullato, dopo che quello del giorno precedente si era chiuso alle due di notte senza un accordo. Il nodo della discordia è il profilo della task force che dovrà gestire i fondi del Ngeu. Da una parte, il premier Giuseppe Conte che vuole inquadrarli sotto l’ombrello di Palazzo Chigi e investirli della facoltà di agire in deroga e con poteri sostitutivi, dall’altra il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che vuole ridurne l’autonomia e sembra disposto ad arrivare fino alla rottura della maggioranza.

Secondo i critici, la task force di 6 manager e 100 tecnici avrebbe poteri esorbitanti e indipendenti dalla verifica dell’esecutivo, diventando de facto una struttura parallela al governo in grado di esautorare o commissariare ministeri e amministrazioni. Una crisi ancora tutta da risolvere, che va a complicare ulteriormente le dinamiche di una maggioranza già attraversata dalle profonde divisioni causate dalla discussione della riforma del Mes.

Perché Conte vuole una struttura centralizzata

Il
successo del Recovery Fund dipende dalla capacità dei Paesi che ne hanno più bisogno
di “assorbire” le
risorse a disposizione. Per ottenere i miliardi del Ngeu infatti, i governi
devono presentare un piano di rilancio che dovrà essere approvato dalle
istituzioni europee. Se un progetto dei Recovery Plan non rispettasse la
tabella di marcia, la questione potrebbe essere portata in sede comunitaria
fino a bloccare il trasferimento dei fondi previsti.

Il meccanismo di controllo è il risultato della volontà di Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia, i cosiddetti Paesi frugali che nel vertice di luglio sono riusciti a ridurre l’entità delle sovvenzioni e a ottenere l’adozione di un protocollo che controlli prima, durante e dopo l’accesso ai fondi da parte degli Stati beneficiari. Gran parte delle attenzioni dei frugali erano rivolte proprio all’Italia, il principale beneficiario. In estrema sintesi, i governi dei frugali non vogliono che i soldi dei loro contribuenti (ed elettori) vengano sprecati o finiscano nelle mani di governi corrotti.

Probabilmente è per questo che Conte vuole creare una struttura centralizzata e molto indipendente con un diritto di supremazia che consentirebbe alla task force di controllare e intervenire su tutti i programmi. Il pericolo più grande con il Recovery Fund non è sprecare i 209 miliardi spendendoli male, ma non riuscire a spenderli affatto a causa di un pessimo funzionamento delle burocrazie coinvolte incapaci di attivare i piani di spesa o, peggio ancora, a causa di fallimenti nell’attuazione del programma che si tramuterebbero in opere incompiute. Stavolta però l’opera incompiuta avrebbe anche conseguenze politiche che rovinerebbero la reputazione dell’Italia a livello europeo.

Il rischio di sprecare il Recovery Fund

Al momento però, più che di una task force con i super-poteri, l’Italia ha bisogno di un Recovery Plan molto dettagliato, paragonabili a quelli di Francia e Spagna (completi solo in parte, ma con obiettivi precisi). Il rischio di sprecare la maggior parte del Recovery Fund è concreto. A novembre la Corte dei conti europea ha pubblicato la relazione annuale sull’esercizio finanziario del 2019, giungendo a conclusioni negative. Dall’analisi risulta che a fine 2019, penultimo anno del bilancio pluriennale corrente, era stato erogato solo il 40% dei finanziamenti Ue stabiliti per il periodo 2014–2020. L’Italia è tra i peggiori: nel 2019 sono stati spesi poco più del 30% dei fondi, rispetto ad una media Ue del 40%.

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