Carcere, appello, rilascio su cauzione: cosa succederà a Julian Assange dopo il «no» del Regno Unito all’estradizione negli Usa?

Una buona notizia, certo. Ma non del tutto. Il fondatore di WikiLeaks rischia di restare in carcere. «Al governo degli Stati Uniti non importa in quale prigione si trovi o perché: vogliono solo che sia messo a tacere e in gabbia», dice Glenn Greenwald

Il fondatore di Wikileaks, l’australiano Julian Assange non potrà essere estradato negli Stati Uniti per le accuse di spionaggio e di pirateria informatica. Lo ha deciso la giudice distrettuale Vanessa Baraitser del tribunale centrale penale britannico, respingendo l’istanza di estradizione: per la giudice, Assange – che oltreoceano rischiava una condanna a 175 anni – sarebbe a rischio di suicidio. Per il fondatore di WikiLeaks, 49 anni, è certamente una buona notizia, ma porta con sé alcune riflessioni, soprattutto ricostruendo cosa potrebbe accadere a questo punto. Già, perché prima di tutto Julian Assange per il momento resta in carcere e potrebbe rimanerci.


Ricorsi e permanenza in carcere

Nella sua ormai lunga vicenda giudiziaria e politica, era già caduta l’accusa di violenza sessuale in Svezia. Dopo essere rimasto per sette anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, ad aprile 2019 il fondatore di WikiLeaks era stato sfrattato e arrestato dalla polizia britannica per aver violato i termini del suo asilo politico. Gli Stati Uniti ne hanno chiesto l’estradizione per una presunta azione di hackeraggio nei confronti del dipartimento della Difesa americano: un crimine informatico la cui pena massima prevista è di 5 anni di reclusione – e che non sarebbe stato mai commesso, come viene ricostruito qui.


A stretto giro però Washington aggiunge, con l’amministrazione Trump, l’accusa di spionaggio, ai sensi dell‘Espionage Act. Un esito che lo stesso Assange aveva sempre previsto: Gli Stati Uniti mi vogliono in carcere con l’accusa di spionaggio, ha detto più volte. I 17 capi di imputazione vengono aggiunti per l’accusa di aver pubblicato materiale riservato datogli nel 2010 da Chelsea Manning, allora analista dell’intelligence dell’esercito Usa: si trattava dei cablo della diplomazia americana, dei Guantanamo Files, degli Afghan e Iraq War Logs. L’accusa di spionaggio viene vista da più parti come un attacco senza precedenti al giornalismo. Come ricordato qui, per il Guardian le accuse americane contro Assange mettono in pericolo le basi stesse della democrazia e della libertà di stampa sia nel Regno Unito che in America.

«Rendere pubbliche informazioni del genere è una pietra angolare della libertà di stampa e del diritto dell’opinione pubblica ad avere accesso a informazioni di interesse pubblico», ricorda Amnesty International in una nota diffusa nelle ultime ore. «Tutto questo dovrebbe essere oggetto di protezione e non di criminalizzazione». Se estradato negli Usa, Assange avrebbe potuto affrontare 18 capi d’accusa: 17 ai sensi della legge sullo spionaggio e uno ai sensi della legge sulle frodi e gli abusi informatici. «Avrebbe anche rischiato gravi violazioni dei diritti umani tra cui condizioni detentive, come l’isolamento prolungato, che potrebbero equivalere a maltrattamento o tortura. Assange è stato il primo soggetto editoriale a essere incriminato ai sensi della Legge sullo spionaggio».

Ora Assange incassa il «no» all’estradizione ma i prossimi passaggi sono tutti da scrivere, perché per il processo britannico resta in carcere. Da aprile 2019 si trova nelle prigioni di massima sicurezza di Belmarsh, nel sud-est di Londra.

Cosa accadrà ora?

I prossimi passaggi vengono ricostruiti su Twitter da Glenn Greenwald, giornalista investigativo americano, cofondatore di The Intercept e autore di No Place To Hide, il libro sulle rivelazioni sulla sorveglianza di massa dell’ex consulente della National Security Agency Edward Snowden. Washington può fare appello – e ha già fatto sapere che intende farlo. Mentre gli avvocati di Assange – è già confermato – chiederanno che venga rilasciato su cauzione in attesa dell’appello del governo degli Stati Uniti. Lo deciderà la giudice nelle prossime ore. «Normalmente, gli imputati in questi casi rimangono in carcere in attesa di appello, e questa giudice ha sottolineato quanto “umane” siano le sue condizioni nel Regno Unito». Qui il documento della sentenza diffuso dal giornalista su Twitter.

«La domanda – e sto sentendo cose diverse su questo – è se i tribunali terranno Assange imprigionato mentre l’appello è in attesa. Il tribunale gli ha ordinato il rilascio, ma non è chiaro se l’appello del DOJ lo terrà in prigione», spiega il giornalista. Un “balletto” a cui, ricorda Greenwald, il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe ancora porre fine con una grazia, o fermando il dipartimento di Giustizia.

«Questa non è stata una vittoria per la libertà di stampa», avverte il fondatore di The Intercept. «Al contrario: la giudice ha chiarito che credeva che ci fossero motivi per perseguire Assange in relazione alla pubblicazione del 2010». La decisione di dire no all’estradizione è invece «un atto d’accusa contro il sistema carcerario statunitense follemente oppressivo per “minacce” alla sicurezza».

Il fatto è che, dice Nils Muižnieks, direttore per l’Europa di Amnesty International, le accuse nei confronti di Assange «non avrebbero mai dovuto essere presentate: erano politicamente motivate e il governo del Regno Unito non avrebbe mai dovuto aiutare gli Usa nell’incessante ricerca dell’estradizione». E ancora: «Constatare che la decisione della corte è corretta e salva Assange dall’estradizione non assolve le autorità del Regno Unito dall’aver voluto prendere parte a un procedimento politico nell’interesse degli Usa e aver mandato a processo la libertà d’informazione e la libertà d’espressione. Si è trattato in ogni caso di un terribile precedente di cui gli Usa sono responsabili e il Regno Unito è complice», affonda Muižnieks.

Da una «prospettiva umanitaria e politica, ciò che conta di più è che Assange venga liberato il prima possibile», avverte Glenn Greenwald. «Al governo degli Stati Uniti non importa in quale prigione si trovi o perché: vogliono solo che sia messo a tacere e in gabbia».

In copertina EPA/WILL OLIVER | La protesta dei sostenitori di Assange all’Old Bailey a Londra, 1 ottobre 2020.

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