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Strade, sgabelli, visiere, portacellulari: come riciclare le mascherine (partendo dalle scuole) – Il video

10 Febbraio 2021 - 09:00 Davide Gangale
Dall'Australia alla Francia, passando per l'Italia, in tutto il mondo si cerca di capire come recuperare i dispositivi usa e getta che rischiano di produrre gravi danni all'ambiente. Tre storie a confronto

Nell’agenda di governo di Mario Draghi e nel Recovery Plan che l’Italia dovrà inviare a Bruxelles, uno dei pilastri alla base degli investimenti dovrà essere il tema ambientale, che proprio durante la pandemia di Coronavirus ha mostrato tutta la sua urgenza. Basterebbe il solo dato relativo al consumo di mascherine quotidiano per dare la misura della potenziale emergenza ecologica: ogni giorno vengono indossate e poi gettate quasi 7 miliardi di mascherine, secondo uno studio della Rmit University di Melbourne. Solo nelle scuole italiane vengono distribuiti ogni giorno 11 milioni di mascherine chirurgiche. E secondo le valutazioni dell’Ispra per l’anno 2020, nel nostro Paese la produzione giornaliera di rifiuti da mascherine oscilla tra le 160 mila e le 440 mila tonnellate. Un’enorme quantità di spazzatura che impiega fino a 450 anni per decomporsi nell’ambiente e che non viene smaltita in maniera differenziata, ma che finisce (in Italia per legge) in discarica oppure negli inceneritori.

In Francia l’idea è venuta a una startup

Eppure in tutto il mondo ci sono ricercatori che stanno lavorando sui modi possibili per riciclare queste montagne di rifiuti. In Francia la startup Plaxtil ne ricava prodotti utili contro l’epidemia, come visiere protettive oppure degli apri-porta per evitare contatti diretti con le maniglie. Il protocollo prevede che le mascherine, una volta raccolte, vengano tenute in “quarantena” per quattro giorni e poi irradiate con raggi ultravioletti per 30 secondi per la decontaminazione. A quel punto possono essere lavorate per essere riciclate, mescolandole con una resina che rende il materiale recuperato più duro e modellabile.

In Australia si progettano strade

In Australia si è scelta una strada (è proprio il caso di dirlo) diversa. «La pandemia ha creato non solo una crisi sanitaria e finanziaria globale, ma ha anche avuto un impatto senza precedenti sull’ambiente», racconta a Open il dottor Mohammad Saberian del Royal Melbourne Institute of Technology (RMIT), «a livello globale ogni giorno vengono generati circa 6,88 miliardi (pari a 206.470 tonnellate) di mascherine facciali, costituite principalmente da plastica non biodegradabile». Questi numeri hanno spinto Saberian a esplorare la possibilità di riciclare le mascherine mescolandole con altri materiali di scarto in applicazioni di edilizia civile. Nello specifico, per costruire delle strade.

La sua ricerca è stata pubblicata sulla rivista Science of The Total Environment ed è la prima al mondo a prendere in considerazione questa possibilità. Per realizzare 1 km di strada a due corsie verrebbero utilizzati circa 3 milioni di mascherine, evitando di mandare in discarica o di dover incenerire 93 tonnellate di rifiuti. «Le mascherine devono essere prima disinfettate e poi sminuzzate in strisce lunghe 2 cm e larghe 0,5 cm», spiega Saberian. Ma vanno innanzitutto estratte dall’indifferenziato: «I materiali di scarto sono generalmente separati in base alla loro dimensione e al peso. Quelli più piccoli e leggeri come le mascherine sono più facili da maneggiare e lavorare. Possono essere estratte dal resto dei rifiuti mediante le raffiche generate dai classificatori ad aria».

Ma in che modo le mascherine facciali “sminuzzate” possono migliorare la duttilità, la flessibilità e la resistenza delle strade? «Possono essere addizionate alle macerie di edifici note come aggregati di calcestruzzo riciclato per migliorare la resa del materiale, perché svolgono un ruolo di rinforzo nel legare le particelle di macerie», puntualizza Saberian. Lo studio ha dimostrato che «l’introduzione di maschere facciali sminuzzate distribuite casualmente ha migliorato la resistenza allo stiramento tra gli aggregati. Di conseguenza duttilità, flessibilità e resistenza delle macerie riciclate sono aumentate. Il nostro team sta ora cercando di collaborare con amministrazioni locali o aziende interessate a raccogliere le mascherine e a costruire un prototipo di strada».

In Italia si punta sulla creazione di oggetti in plastica

In altre parti del mondo, altri ricercatori stanno esplorando possibilità differenti. In Italia, per esempio, ci stanno lavorando il professor Alberto Frache e il dottor Daniele Battegazzore, del dipartimento di Scienze applicate e tecnologia dei materiali presso la sede di Alessandria del Politecnico di Torino: «Da un nostro sondaggio emerge che circa il 75% delle persone intervistate utilizza le mascherine chirurgiche usa e getta. In media quattro mascherine a persona a settimana. Non sappiamo dire se nel 2023 gireremo ancora con le mascherine, non è da escludere. Se dovessimo andare avanti ancora per anni, trovare modi per riciclarle sarà ancora più importante». I problemi da risolvere sono i seguenti:

  • Il primo è la raccolta. In Italia attualmente le mascherine vengono gettate nell’indifferenziato. Il professor Frache suggerisce quindi di partire dalle comunità chiuse: «A mio avviso la cosa più sensata sarebbe partire dalle aziende o dalle scuole. Se si dà una mascherina allo studente quando entra a scuola, con l’indicazione di buttarla in un apposito contenitore, ogni giorno è possibile calcolare la quantità di mascherine prodotte da quella scuola. Idem per le aziende. Partire dai cittadini comuni sarebbe più difficile».
  • Il secondo è la sanificazione. Spiega ancora Frache: «La ricerca che abbiamo pubblicato sulla rivista Polymers l’abbiamo fatta lavorando su mascherine nuove, non abbiamo le attrezzature per sanificare. Ma stiamo cercando, anche in collaborazione con altre Università, di verificare quali possono essere i passaggi da fare. Serve stabilire un protocollo adeguato e certificato».
  • Il terzo sono i materiali che si possono ottenere. «Abbiamo pensato a quattro processi differenti per ottenere quattro materiali termoplastici con caratteristiche un po’ diverse l’uno dall’altro», spiega l’ingegner Battegazzore, «in generale si possono ottenere oggetti in plastica che possono essere stampati a iniezione oppure estrusi».

In altre parole, partendo dal polipropilene (il materiale principale di cui sono fatte le mascherine chirurgiche, strato azzurro compreso, circa l’80% del peso totale) si possono fare tastiere per pc, sgabelli (ci hanno pensato anche in Corea del Sud), giocattoli, portacellulari… le possibilità sono tante, ma molto dipende da cosa si decide di usare per “tagliare” le mascherine, ovvero dagli elementi di miscelazione. «Questo processo è fondamentale», riassume il professor Frache, «si può e si deve pensare di usare dei rinforzanti, oppure degli altri polimeri che hanno delle performance migliori rispetto al polipropilene delle mascherine».

Di cosa sono fatte la mascherine chirurgiche (immagine tratta dalla ricerca di Battegazzore e Frache pubblicata sulla rivista Polymers)

Un quarto problema, come spesso accade in Italia, non ha a che fare con la scienza, ma con la burocrazia: «Noi abbiamo presentato al Miur un progetto Fisr (Fondo integrativo speciale per la ricerca) proprio con questa idea, capire come riciclare le mascherine. A giugno del 2020 sono usciti dei bandi dedicati al Covid-19 e abbiamo chiesto un finanziamento, perché per ora tutto il lavoro di ricerca lo abbiamo fatto con fondi nostri. Purtroppo ancora non abbiamo ricevuto risposta».

Il ministero «deve ancora fare la selezione ed è spiacevole dirlo, perché se a febbraio del 2021 non sappiamo ancora se il nostro progetto è passato, è evidente che i tempi sono destinati ad allungarsi. E così arriviamo sempre dopo gli ultimi». E pensare che a Mondovì, in provincia di Cuneo, i ragazzi del Circolo delle Idee sarebbero disponibili a darsi da fare volontariamente per provare a sviluppare localmente, con il supporto del Comune, un sistema di raccolta delle mascherine, per esempio andando a ritirarle nelle scuole. Ma al momento, conclude l’ingegner Battegazzore, «non saprebbero che farsene e dovrebbero buttarle nell’indifferenziato».

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