Draghi punta al bilancio comune europeo: ecco il vero obiettivo del Recovery plan italiano

L’obiettivo del premier è dare il via alla costruzione di un budget comunitario permanente, finanziato con un meccanismo solidale di indebitamento comune la cui solvibilità è garantita congiuntamente dagli altri Stati membri

Nel discorso di insediamento per chiedere la fiducia al Senato, il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi ha ricordato che sostenere il suo governo significa condividere l’irreversibilità dell’euro, e la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata, che deve approdare a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Considerando che Draghi è stato chiamato in causa soprattutto per riscrivere, far approvare e avviare l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, con queste parole ha ricordato all’aula l’obiettivo massimo del suo incarico: fare del Recovery Plan italiano una storia di successo, un precedente determinante nel dare il via alla costruzione di un budget comunitario permanente, finanziato con un meccanismo solidale di indebitamento comune la cui solvibilità è garantita congiuntamente dagli altri Stati membri.


Il Recovery Plan non deve limitarsi a guardare ai progetti che si svilupperanno dal 2021 al 2026

Il successo del Next Generation EU infatti potrebbe essere lo scatto in avanti verso la creazione di un bilancio comune dell’eurozona: un’unione di trasferimenti che redistribuisce risorse come avviene all’interno degli Stati nazionali tra regioni ricche e povere: uno degli obiettivi più ambiziosi (e incendiari) dell’integrazione europea. Draghi l’ha detto chiaramente, il Recovery Plan non deve limitarsi a guardare ai progetti che si svilupperanno dal 2021 al 2026 (anno finale del Ngeu), serve una prospettiva che  guarda al 2030 e al 2050, anno in cui l’Ue deve arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti. Ciò significa riformare in profondità il sistema Italia.


Indubbiamente è quello che si dice un vasto programma, ma il Recovery Fund nasce fin dall’inizio con un’ambizione che guarda oltre il superamento della crisi economica post-pandemia. L’obiettivo infatti non è solo trasferire risorse ai Paesi più colpiti dal Covid-19, i Recovery Plan avranno successo solo se accompagnati a riforme che aumentino in maniera permanente le potenzialità produttive e le capacità amministrative degli Stati membri, e l’Italia è in cima alla lista dei beneficiari.

Inoltre, un limite del Recovery Fund è che si tratta di risorse meno abbondanti di quanto si creda. Soprattutto, non è realistico dare per scontato che tutti gli Stati membri riescano ad utilizzare fino fondo i miliardi stanziati dal Ngeu. Il metro di paragone più appropriato per stimare il tasso di “assorbimento” dei fondi è la performance nell’utilizzo del bilancio pluriennale europeo (Mff), che viene speso in 7 anni. L’anno scorso si è concluso il periodo 2014-2020 e a gennaio sono stati presentati i dati sull’utilizzo dei fondi strutturali da parte degli Stati membri.

Nel periodo 2014-20 la Spagna è riuscita a spendere appena il 36% dei fondi strutturali Ue, l’Italia solo il 43%

Spagna e Italia, i Paesi che riceveranno i fondi maggiori, hanno registrato le performance peggiori. Nel periodo di bilancio pluriennale 2014-20 la Spagna è riuscita a spendere appena il 36% dei fondi a disposizione, l’Italia solo il 43%. La Francia è riuscita a impiegarne il 61% mentre la Finlandia (la migliore) si è comunque fermata all’81%. Se applichiamo questi risultati al Recovery Plan italiano, con il nostro 41% i famosi 209 miliardi diventano 85,7 mld, che arrivano a 127 mld se applichiamo il 61% della Francia e 167,2 mld se applichiamo l’81% della Finlandia. 

Perciò, la grande promessa del Recovery Fund non è tanto nell’effetto di moltiplicatore, ma nella capacità di usarlo come fonte di risorse per attuare riforme strutturali con benefici permanenti, che vanno oltre il 2026. L’Italia da questo punto di vista ha l’impatto potenziale maggiore, ma fin dal suo ingresso nell’eurozona il Paese non è riuscito a riformarsi, con la conseguenza di avere una crescita della produttività quasi nulla. 

Le possibilità che Draghi riesca o meno a fare la differenza dipendono da quanto la maggioranza della sua coalizione allargata possa approvare le riforme, e attuarle correttamente lungo un processo che richiede anni. Un periodo di gran lunga superiore all’orizzonte di questa legislatura, anche nel caso in cui dovesse arrivare fino alla scadenza naturale nel 2023.

Sostenere il governo Draghi significa condividere la prospettiva di un’Ue sempre più integrata

Il programma del Piano nazionale di ripresa e resilienza che sarà riscritto in queste settimane, e approvato dalla Commissione europea entro giugno, va interpretato come definitivo e vincolante. Dopo l’approvazione non sarà più modificabile, né emendabile (se non in minima parte e in via del tutto eccezionale). Draghi gode di un vasto consenso, ma non rimarrà in carica abbastanza a lungo per supervisionare il piano fino alla fine. Potrebbe riuscire ad avviare l’Italia lungo il giusto percorso, e forse continuare a seguirne lo sviluppo durante un eventuale settennato al Quirinale.  

L’Italia spesso è stata bollata come “il malato d’Europa”, forse un giudizio troppo severo, ma il Paese è indubbiamente la più grande contraddizione dell’Unione. Dai risultati del Recovery Plan italiano quindi dipendono la natura e l’esito della discussione sul bilancio comune dell’Ue e la riforma del Patto di stabilità e crescita. Draghi non esagera quando dice che sostenere il suo governo significa condividere la prospettiva di un’Ue sempre più integrata, che deve approdare a un bilancio comune. Chissà se tutti i membri della super maggioranza che lo sostiene lo hanno capito davvero.

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