Nel comunicato dell’università di Tor Vergata si parlava già di una «rivoluzione». Tutto è cominciato quando Jean-Laurent Casanova della Rockefeller University ha condotto due studi, apparsi nell’ottobre scorso su Science. I ricercatori fanno parte del consorzio internazionale Covidhge, al quale l’Ateneo romano ha contribuito attraverso il laboratorio di genetica medica diretto dal professor Giuseppe Novelli.
Cercando le ragioni delle forme gravi di Covid-19, i ricercatori si sono accorti che determinate condizioni genetiche e immunologiche possono spiegare la presenza di asintomatici, o affetti da forme lievi della malattia. Tutto questo è emerso solo recentemente, dopo alcuni interventi di Novelli riportati recentemente dai media.
Le potenziali implicazioni terapeutiche dei due studi
Il primo paper, di tipo prettamente genetico, tratta le mutazioni di 13 geni in pazienti affetti da forme gravi di Covid-19. Riguardano gli interferoni, già noti per il loro ruolo nel determinare la risposta immunitaria nell’influenza. In sostanza, sono delle proteine importanti nel determinare la risposta immunitaria.
Il secondo studio, di tipo immunologico, rileva la presenza di «auto-anticorpi» che neutralizzerebbero gli effetti antivirali degli interferoni. Si troverebbero nel 10% dei pazienti colpiti da gravi polmoniti associate a SARS-CoV-2, mentre è difficile trovarli nella popolazione generale.
«Lo studio risponde infatti a un interrogativo fondamentale, che da mesi anima il dibattito scientifico – continua la nota dell’Ateneo – perché la risposta individuale all’infezione da SARS-CoV2 varia così tanto da persona a persona? La crucialità di questa informazione è radicale, dato che aiuterebbe a indentificare i pazienti a rischio, anticiperebbe e migliorerebbe i protocolli sanitari da attuare e fornirebbe nuove vie terapeutiche».
Si è scoperto per esempio, che il 15% delle forme gravi di Covid-19 potrebbe spiegarsi con fattori immunologici e genetici. Questi sono riscontrabili in un «difetto nella produzione degli interferoni di tipo I». Per cominciare a far luce sulla situazione i ricercatori si sono avvalsi del Dna di 659 pazienti con forme gravi di Covid-19. Anche la presenza di auto-anticorpi (auto-Abs), potrebbe spiegare – in parte – come mai certe fasce della popolazione risultano più a rischio di altre.
«I geni attivi nei meccanismi di difesa quando mutati, sembrano favorire la gravità della malattia —spiega Novelli – i nostri geni possono quindi influenzare il modo in cui il sistema immunitario risponde a un’infezione, e quindi chiarire perché alcune persone presentano sintomi più gravi della malattia e indirizzare un sottogruppo di pazienti verso una terapia mirata».
Il ruolo degli interferoni
Sono tre i fattori di rischio per le forme gravi della malattia: «Essere maschi, essere anziani e avere altre condizioni mediche». Nello studio genetico l’ipotesi di partenza è che tali condizioni possano essere associate a «errori congeniti monogenici di immunità». Individuati 13 geni collegati alla produzione di interferoni, i ricercatori hanno confrontato due gruppi: il primo di 659 pazienti gravi; il secondo di 534 asintomatici o malati con forme lievi.
«Test sperimentali per tutte le 118 varianti rare non sinonime […] di questi 13 geni trovati in pazienti con malattia critica hanno identificato 23 pazienti (3,5%), di età compresa tra 17 e 77 anni, portatori di 24 varianti deleteri di otto geni […] Questi pazienti non erano mai stati ricoverati in ospedale per altre malattie virali pericolose per la vita».
I ricercatori hanno così suggerito la somministrazione di interferone di tipo I nei pazienti con le mutazioni studiate, almeno nelle prime fasi dell’infezione. Naturalmente si tratta di ipotesi che richiederanno ulteriori studi per essere verificate.
Il sabotaggio degli auto-anticorpi
Durante la ricerca immunologica si è partiti ugualmente dai tre fattori di rischio sopra citati. Stavolta però la lente di ingrandimento si è spostata dai geni alla risposta immunitaria.
I ricercatori hanno osservato un gruppo di 987 pazienti ospedalizzati, a confronto con uno composto da 663 asintomatici o con forme lievi di Covid-19. Almeno 101 dei 987 (il 10,2%) presentava anticorpi neutralizzanti gli interferoni trattati nel precedente studio.
«Questi auto-Abs erano presenti prima dell’infezione nei pazienti testati ed erano assenti in 663 individui con infezione asintomatica o lieve da SARS-CoV-2 – continuano gli autori – Erano presenti solo in 4 su 1227 (0,33%) individui sani (P <10-16) prima della pandemia. I pazienti con auto-Abs avevano un’età compresa tra i 25 e gli 87 anni (la metà aveva più di 65 anni) e avevano origini diverse. In particolare, 95 dei 101 pazienti con auto-Abs erano uomini (94%)».
«Questi risultati forniscono una prima spiegazione per l’eccesso di uomini tra i pazienti con COVID-19 potenzialmente letale e l’aumento del rischio con l’età. Forniscono anche un mezzo per identificare le persone a rischio di sviluppare COVID-19 potenzialmente letali e garantire la loro iscrizione alle sperimentazioni sui vaccini. Infine, aprono la strada alla prevenzione e al trattamento».
Sembra evidente dunque l’estrema importanza di questo filone della ricerca, che potrebbe giocare un ruolo nello sviluppo di nuove terapie. Staremo a vedere.
Foto di copertina: geralt | Quesiti ancora aperti sulla Covid-19.
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