Il ritorno di Motta: «Il mondo è cambiato negli ultimi 3 anni. Canto le canzoni che hanno retto il colpo» – L’intervista

Il cantautore toscano si racconta a Open in occasione dell’uscita di «Semplice». Tra Calvino, i consigli di De Gregori, la sorella Anna, amore, affetti, cambiamenti e semplificazioni, senza snaturarsi

Motta, che tempismo. Pubblicare un album Semplice, nel titolo e nella sostanza, in questo momento di incertezza rischia di essere un atto crudele, per il tormento che potrebbe generare nella sua spietata purezza testuale, vocale e strumentale. Perché Francesco Motta, dopo La fine dei Vent’anni e Vivere o Morire, entrambi premio Tenco, per tre anni è (quasi) sparito. Ma lui, nel frattempo, ha intrecciato meticolosamente i fili dei nuovi arazzi del suono e delle parole delle 10 tracce che compongono questo nuovo album. Ma nel tempo il fuoco può oscillare, i brani decadere, mentre altri resistono e acquisiscono maggiore forza. E anche lui, come noi, forse è cambiato. 


Un lavoro artigianale che richiede tempo, precisione, dovizia, limature, correzioni, migliorie. A semplificare, «che poi è una conquista, un po’ come quando Calvino in Lezioni Americane diceva che la leggerezza non è una piuma che cade, ma un uccellino che batte le ali per restare in volo». Ma restituisce molto, a chi l’ha composto e a chi lo ascolta. Un lavoro «molto maniacale – ci racconta -. Di solito è il tempo, è la scadenza che mi ferma. In questo caso la scadenza me la sono messa da solo». Ed è qui che entra in gioco l’apertura dell’album: A te, che è «più una dichiarazione d’intenti, una risposta alla domanda perché faccio questo mestiere». 


E Francesco, perché lo fai questo mestiere?

«È una domanda che mi son fatto spesso negli ultimi tempi. E alla fine sono giunto alla conclusione che che per me è come respirare, non ne posso fare a meno. E mi pare già un buon punto di partenza per fare un disco».

Il punto di partenza c’è. Com’è andato avanti? 

«È cambiato molto negli ultimi 3 anni, anche perché è cambiato il mondo. Ci sono canzoni che hanno retto il colpo di questo cambiamento. Altre no. Quelle che hanno retto il colpo per me hanno una valenza maggiore». 

Quali sono le sopravvissute?

«Qualcosa di normale, A te, Le regole del gioco, E poi finisco per amarti, in parte. È come se avessero cambiato anche il senso di certe cose. Altre sono state scritte nell’ultimo anno». 

Hai fatto un po’ pace con il tempo, le scadenze, le pressioni?

«Ho avuto tantissimo tempo per concludere il disco. Molto più tempo di quello che mi ero prefissato. È stato un regalo che mi sono fatto, perché il mio modo di lavorare prescinde dalle scadenze. È sempre difficile concludere rispetto ai tempi».

Come li metti i paletti temporali? Riesci a dirti da solo: “Ok, va bene così”?

«Spesso capita ci siano certe cose di cui mi accorgo solo io e per cui gli altri mi dicono “quella cosa la senti solo tu”. Ma a me basta per capire che va risolta. Sono molto maniacale. Di solito è il tempo, è la scadenza che mi ferma. Però avendo deciso un po’ più io i tempi stato molto libero. Anche il fatto di aver già lavorato con Taketo Gohara ci ha permesso di lavorare più velocemente. Lo sappiamo solo io e lui quando qualcosa è veramente finito».

Però nel complesso però Semplice, tanto semplice non è. 

«È stato più faticoso di altri lavori, ma in generale devo dire che in questo album c’è molta più libertà e molta più voglia di divertirsi nel fare questo mestiere. Credo che questo spirito venga fuori con la musica: non ho cercato di forzarmi per fare un certo disco in un certo modo».

Passiamo ad alcuni brani specifici. L’unica collaborazione nell’album è con Alice, tua sorella, in Qualcosa di normale. Com’è nato il tutto? 

«Il consiglio di cantare con una donna è arrivato da Francesco De Gregori, perché sentivo la responsabilità etica di farla sentire a lui. Prende un po’ da quel mondo lì e uno dei motivi per cui faccio questo mestiere qui è anche Francesco De Gregori. Lui mi ha consigliato di cantarla assieme a una donna. E ho deciso di cantarla con mia sorella, sia perché è una delle mie voci preferite in Italia e anche per il fatto che, ovviamente, parlare d’amore insieme a mia sorella ha rigenerato la canzone, ha cambiato il punto di vista, ha dato un tocco diverso».

I livelli sonori di Semplice, la canzone, sono un ossimoro rispetto al titolo, no?

«Guarda, se tornassimo indietro in studio con gli amici musicisti e qualcuno ci dicesse “Rifate quella cosa lì”, sinceramente non saprei da dove iniziare, perché è stato veramente un flusso e ci siamo fatti trasportare. A differenza degli album precedenti in questo c’è molto la band con cui ho suonato negli ultimi anni. Tutto era partito dalla chitarra e dalla canzone. Poi è partita la batteria e mi sono trovato in questo racconto in cui era come se la voce e la batteria parlassero tra loro. Questa cosa ha portato al finale, che forse è una delle parti del disco che mi piacciono di più. Non vedo l’ora di suonarlo dal vivo». 

Però anche in altri brani si crea una dimensione sonora più da concerto vero e proprio. È molto tridimensionale, non trovi?

«Il disco è servito per arrivare al titolo. Diciamo però che ci sono delle cose apparentemente non semplici. Quello che mi interessava era il percorso verso il titolo. È un po’ quello che è successo con l’ultima frase che ho scritto che è stata: “Per te che tutto è semplice, anche l’amore” che ho scritto con Dario Brunori. Mi son detto: “Mi ci sono voluti tre anni e dieci canzoni per dire questa cosa qua”. Ma io penso che la semplicità e leggerezza siano le cose più difficili da raggiungere. Quindi torna la questione degli arrangiamenti molto barocchi, apparentemente complicati».

Che mi puoi dire di Dall’altra parte del tempo

«È una delle canzoni più vecchie che ho scritto. Ho sempre fatto fatica a finirla. Mi ha dato una mano Luigi De Crescenzo (Pacifico) e ho trovato un mio modo per emozionarmi nel cantarla, perché erano cambiate un po’ di cose da quando l’avevo iniziata a scrivere. Sono canzoni per cui passa del tempo e cambia il fuoco che le muoveva»

Apri l’album cantando del movimento, del mare, e lo chiudi con l’immobilismo terreno, con quel “restare con i piedi a terra a cavarmela”. C’è una contrapposizione o vuole essere un collegamento tra l’inizio e fine, il mare e la terra

«Quando lavoro per me un disco deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine. Come è stato anche in Vivere o morire, dove iniziavo con una strumentale e concludevo con una domanda rivolta a mio padre. La cosa che mi piace molto è finire i dischi in modo che siano un punto di partenza per qualcos’altro. A te è più una dichiarazione d’intenti, una risposta alla domanda perché faccio questo mestiere. Mentre nel finale c’è questa parte scritta con Brunori e un lungo strumentale, a cui tengo molto, perché mi piace l’idea di raccontare le cose anche solo attraverso la musica. Anche solo il suono può avere un racconto, anche senza testo. Quindi una contrapposizione tra inizio e fine c’è»

Riferimenti musicali nella composizione dell’album? 

«C’è un disco che mi ha abbastanza scomposto nell’arrangiamento degli archi. È il penultimo disco di Angel Olsen (All Mirrors) che mi ha fatto venire voglia di sperimentare con l’arrangiamento degli archi e delle cose che dal vivo noi abbiamo fatto negli ultimi anni con la band. Eravamo una sorta di rock band con il violoncello. Quindi abbiamo sviluppato tutto il lavoro fatto assieme a un quartetto d’archi e abbiamo preso molto spunto da quell’album».

Il Primo maggio tornerai sul palco del Concertone, poi altre due date live estive (una a Roma e una a Milano, per ora). Dopo essere stati fermi così tanto come ci si sente?

«Sento una grande responsabilità. Non mi è mai successo nella mia vita di restare così tanto lontano da un palco. Sono molto emozionato perché in un momento in cui non dai niente per scontato salire su un palco con gli altri musicisti sarà un’emozione forte».

Hai mai sofferto di ansia da scrittura e da palco?

«Ne ho molta di più adesso. Anzi. Soprattutto adesso. La definirei più voglia che mi accada qualcosa, senza andarlo a cercare per forza. Ma alla fine qualcosa succede sempre, perché sono sul palco. E il palco è il mio posto preferito del mondo, non posso che star bene là sopra». 

Senti, ma tra questi 10 brani ce n’è uno che non avresti mai pensato di scrivere o comporre? 

Forse Via della luce, che è anche uno dei miei brani preferiti del disco

Ma allora possiamo dire che sei un po’ contento?

«Sì, mi assumo la responsabilità di dire che sono molto soddisfatto di quello che ho fatto, di tutti i minuti, le ore, i giorni, le notti che ho passato a comporre questo disco. Mi emoziona molto ascoltarlo, questa è l’unica cartina di tornasole che ho per poter dire se sono soddisfatto o no. E lo sono». 

Foto in copertina: Motta, ©Claudia Pajewski

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