Germania, Francia e soprattutto Italia: la fine del populismo anti-élite dietro lo strappo Conte-Grillo

Per chi ha osservato fin dalla nascita il M5s, la conferenza stampa di Conte è stata un rito funebre, del movimento che ha trionfato alle elezioni del 2013 e del 2018 non c’era più niente

Ieri pomeriggio a Roma si è consumato l’atto più duro dello scontro tra l’ex premier Giuseppe Conte e Beppe Grillo, garante di quel M5s di cui Conte vuole assumere la leadership con il desiderio di tornare alla gloria di Palazzo Chigi. La conferenza stampa doveva dare risposte, ma pur rappresentando un punto di svolta non fa che aumentare le domande su cosa sarà del M5s e dei suoi gruppi parlamentari. Le parole di Conte sono lo spaccato di una competizione insostenibile tra due uomini e la loro ambizione. «A Beppe dico che non ne faccio una questione personale, lui sa bene che ho avuto e ho rispetto per lui. Ma non possono esserci ambiguità, spetta a lui decidere se essere il genitore generoso che lascia crescere la sua creatura o il genitore geloso».


Il clima è più da resa dei conti per mettere le mani su una posizione di potere – o conservarle nel caso di Grillo – che mettersi alla guida di una proposta politica. Nella contesa Conte-Grillo risultano praticamente assenti cose come gli argomenti programmatici, le posizioni politiche di principio e l’elettorato di riferimento. Le cose a cui si fa appello sono l’amministrazione, la comunicazione, e «gli iscritti» che in quanto titolari della possibilità di votare sulla piattaforma online possono influire sulla decisione finale. La proposta politica è quasi del tutto assente.


Ma la crisi d’identità e leadership del M5S è indice di una confusione della politica italiana ed europea più ampia, causata dal ridimensionamento dell’ondata di populismo anti-élite e anti-euro che ha caratterizzato una fetta rilevante dell’offerta politica (vecchia e nuova) degli ultimi 7-10 anni, a sua volta causata dal Covid-19 che ha costretto le opinioni pubbliche a fare i conti con la necessità di avere più certezze nella capacità e nelle competenze di chi è al governo. 

Il caso delle elezioni in Germania e Francia

Poche settimane fa (6 giugno) si è votato nel Land tedesco della Sassonia-Anhalt. I sondaggi davano il partito di estrema destra della AfD al 26% in un testa a testa con la CDU di Angela Merkel, quotato non oltre il 28-30%. Invece, il risultato ha visto una vittoria netta della CDU con il 37% mentre l’AfD è rimasta ferma al 20,8%. Qualcosa di simile è successo nelle elezioni regionali francesi (20 e 27 giugno), dove i sondaggi davano per certa l’affermazione dell’estrema destra del Rassemblement National di Marine Le Pen, considerato vicino alla conquista di almeno una regione, ma che invece ha subito sonore sconfitte.

Anche il movimento En Marche! del presidente Emmanuel Macron, a suo modo anti-politico, è stato snobbato. Gli elettori hanno scelto i tradizionali partiti di centro-destra (circa il 38%) e centro-sinistra (il 34,5%), offesi e marginalizzati negli ultimi anni dai messaggi rivoluzionari del populismo anti-euro di Le Pen e del «populismo elitario» di Macron. Nel caso francese a colpire è anche l’astensione: appena il 35% sia al primo che al secondo turno. 

Negli ultimi anni l’astensione aveva favorito una politica sopra le righe, quella che parlando «alla pancia» mobilita l’elettorato arrabbiato, al contrario dei moderati che disertano le urne di fronte a un’offerta tradizionale giudicata insoddisfacente. Invece in Germania e in Francia sembra essere accaduto il contrario, stavolta a restare a casa è stato l’elettorato a cui si rivolgeva il populismo, deluso dall’inconsistenza di proposte politiche che alla prova dei fatti sono svanite nel nulla, disinteressato a votare d’istinto di fronte alle esigenze molto più concrete emerse dopo più di un anno di pandemia e misure straordinarie.

Il populismo alla prova della realtà

Per chi ha osservato fin dalla nascita il M5s la conferenza stampa di ieri è stata un rito funebre, del movimento che ha trionfato alle elezioni del 2013 e del 2018 non c’era più niente: la spregiudicatezza, l’aggressività, il massimalismo, le piazze in tumulto. C’era solo un uomo diventato premier per caso che cerca solidarietà nel suo richiamo di un momento politico che non esiste più. 

Prima dell’inizio di questa legislatura il M5s nasceva con la promessa di non stare con nessuno per non contaminarsi, 3 anni dopo grazie alla maggioranza relativa dei seggi ha governato con la Lega di Matteo Salvini creando il governo più populista dell’Europa occidentale, poi con il Pd che fino a pochi giorni prima veniva raffigurato come partito-piovra e «partito di Bibbiano», e infine con quel Mario Draghi che rappresenta tutto quello che il M5s delle origini ha sempre combattuto fin dalla sua nascita. Il confronto con la realtà e il Covid-19 hanno messo alla prova ogni leader politico d’Europa e del mondo, nel caso italiano sta stravolgendo la geografia della politica costruitasi dopo il governo Monti del 2011. Il caso del M5sS è solo il più evidente, per ora. 

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