Da Paolo Palumbo a Malika Chalhy, quando i soldi raccolti per una buona causa fanno un’altra fine

Il caso della giovane fiorentina sotto attacco per aver usato i soldi regalati dagli utenti per comprare una Mercedes è solo l’ultimo di una serie di casi di fiducia tradita dei donatori. Ma ci sono anche storie di segno opposto, come quella del pescatore di Lampedusa

Una ragazza di 22 anni di Castelfiorentino, Malika Chalhy, era stata cacciata di casa dalla famiglia perché lesbica. «Se torni ti ammazziamo, meglio 50 anni di carcere che una figlia lesbica», queste le parole associate ai genitori che avevano scatenato l’indignazione pubblica contro di loro e la piena solidarietà nei confronti della ragazza. La raccolta fondi a suo favore le aveva permesso di pagare un anno di affitto a Milano, dei vestiti, il dentista e l’avvocato, ma ciò che ha fatto storcere il naso a molti è stato l’acquisto di una Mercedes da circa 17 mila euro e, a quanto pare, un cane da 2.500 euro. Spese folli, direbbe qualcuno, ma ciò che ha danneggiato ulteriormente la credibilità di Malika sono state le bugie, come il voler negare inizialmente che la Mercedes fosse sua così come l’annuncio di una fantomatica associazione per le vittime di discriminazione da fondare insieme a Laura Boldrini, circostanza del tutto smentita dall’ex Presidente della Camera. Di fronte a questa storia, in quanti sarebbero disposti ad aiutare con una raccolta fondi un’altra ragazzina in difficoltà? Non si può dire che Malika abbia truffato i donatori, così come non si può dire che sia stata utilizzata per raccogliere dei fondi. Questo sarebbe successo invece a un altro 22enne di nome Paolo Palumbo, il malato di SLA ospite del Festival di Sanremo del 2020.


Il caso Paolo Palumbo

A Paolo era stata promessa una cura sperimentale a Gerusalemme, in Israele, con il metodo Brainstorm dell’omonima società americana. Sarebbe stato messo in contatto con due medici della clinica Hadassah, tra i quali il professor Dimitrios Karussis, per concordare la terapia sperimentale e i costi da sostenere, una cifra pari a circa 500 mila euro per la quale venne avviata una raccolta fondi attraverso la piattaforma GoFundMe. Il fratello di Paolo, Rosario, venne a conoscenza da un anonimo di alcune falle nei racconti dei medici che si erano tenuti in contatto tramite delle email non ufficiali della struttura sanitaria con la scusa di un problema tecnico. A far crollare tutte le certezze dei ragazzi fu un comunicato ufficiale sul sito della terapia dove si dissociavano dalla campagna di raccolta fondi, riscontrando definitivamente che tutte le fantomatiche email del professor Karussis – il quale negò di aver contattato il giovane – provenissero da un account falso.


Rosario presentò presso la Polizia Postale, a nome del fratello, regolare denuncia per la truffa in atto nei suoi confronti, un atto che portò a un’inchiesta coordinata dalla procura della Repubblica oristanese arrivando ad ipotizzare che la raccolta fondi per le cure fosse una truffa organizzata da persone vicine al giovane Paolo, tra queste addirittura il padre. Non risulta che il giovane si sia intascato i circa 143mila e 68 euro raccolti, somme tutt’oggi trattenute dalla stessa piattaforma dove la raccolta risulta ancora in corso. Eppure, così come nel caso di Malika, molti lo contestarono e lo accusarono di essersi approfittato della generosità dei donatori. Qualcuno arrivò persino ad augurargli la morte su Instagram con messaggi del tipo «Spero che tu muoia uno come te non può stare in vita».

Il ruolo di Fedez e Ferragni

Una sfiducia nelle raccolte fondi che venne alimentata in qualche modo anche dal Codacons. Nel 2020, a seguito dell’emergenza coronavirus, la coppia Fedez e Chiara Ferragni avevano avviato una raccolta attraverso la stessa piattaforma usata per Malika e Paolo Palumbo, GoFundMe, per raccogliere donazioni per l’ospedale San Raffaele di Milano. Un’operazione di successo che venne presa di mira dall’associazione di Carlo Rienzi, la quale presentò un esposto all’Antitrust per bloccare le raccolte fondi. Non solo, Codacons chiese che venisse «reso pubblico l’ammontare dei fondi raccolti dalla campagna lanciata da Fedez e Chiara Ferragni, il totale delle commissioni incassate dalla società GoFundMe, e quanto sia stato speso per il reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele», tutti chiarimenti ritenuti inoltre «necessari in merito alla nuova campagna lanciata da Chiara Ferragni attraverso la vendita di capi sportivi legati ad un noto marchio commerciale, il cui ricavato dovrebbe andare totalmente in beneficenza: vogliamo sapere se vi saranno costi di qualsiasi tipo a carico di chi acquisterà i prodotti, e se la società commerciale partner dell’iniziativa, a parte godere di una enorme pubblicità, otterrà benefici economici».

Non mancarono le polemiche, la stessa associazione di Rienzi venne criticata per un banner sul sito del Codacons dove si chiedevano donazioni per supportare l’associazione «nella battaglia a fianco dei cittadini contro il coronavirus». «Lo fa mentre sulla sua homepage chiede donazioni per supportare la battaglia contro il Coronavirus. Come?», domandava in un tweet Giuseppe Francaviglia concludendo così il suo affondo: «Donando al Codacons stesso, che non userà i soldi per darli agli ospedali, ma per se stesso. Però “ehi hai gli sgravi fiscali! WOW”. che bella la lotta al pandemia…».

Il pescatore di Lampedusa

In direzione opposta a questi casi c’è quello del 57enne Vincenzo Partinico, il pescatore di Lampedusa che a inizio giugno aveva soccorso una carretta con 24 migranti a bordo. Nonostante la Procura di Agrigento avesse definito meritorio il salvataggio, venne denunciato perché si trovava a 39 miglia dalla costa di Lampedusa violando le norme del Codice della navigazione. Una denuncia che, per uno dei tanti pescatori in difficoltà nell’isola, gli sarebbe costata cara soprattutto in termini di spese legali. A suo favore si erano mossi diversi personaggi, in prima linea Fabio Cavallo della Rete Italiana Antifascista, invitando le persone di buon cuore di effettuare un bonifico diretto al conto del pescatore. Speravano di raccogliere due o quattro mila euro, ma in meno di una settimana il conto corrente di Vincenzo era schizzato da 627 euro a oltre 12 mila. Una raccolta ben oltre le aspettative, tutte documentate rigorosamente online attraverso le pubblicazioni dei movimenti contabili, che permetterà al pescatore di pagare le spese legali, l’eventuale multa e se sarà fortunato potrà utilizzare il rimanente per mettere a posto la sua imbarcazione, quella che permette a lui e alla sua famiglia di vivere.

Come nella favola Al lupo! Al lupo! attribuita a Esopo, gli episodi di Malika e Paolo non fanno altro che creare malcontento e sfiducia nelle raccolte fondi. Come si potrebbero sentire le persone di buon cuore nel voler donare dei soldi a qualcuno che potrebbe averne bisogno? Quanto potrebbe essere, ormai, il timore di veder “gettati al vento” dei soldi per poi trovarseli mal spesi o persino rubati da qualcuno di malintenzionato come nel caso di Paolo?

Aggiornamento 4 luglio

Il 2 luglio 2021 è arrivata una richiesta di rettifica da parte dell’Ufficio Stampa Codacons. La pubblichiamo per intero, seguita dalla risposta dell’autore del presente articolo.

Gentile Direttore,
con la presente si chiede la rettifica delle errate informazioni contenute nell’articolo pubblicato al link https://www.open.online/[…] a firma di un vostro giornalista che già da tempo ha avviato una campagna diffamatoria sui social contro il Codacons.
L’articolo in questione infatti associa erroneamente la nostra associazione alle raccolte fondi truffaldine, quando in realtà è stato proprio il Codacons, con le sue denunce, a sollevare il problema delle opacità nel settore della solidarietà e a portare – grazie ad un esposto da noi presentato – alla multa dell’Antitrust da 1,5 milioni di euro nei confronti di Gofundme.
L’articolo da voi pubblicato appare diffamatorio in quanto lascia interndere che il Codacons avrebbe truffato i consumatori attivando una finta raccolta fondi, cosa gravissima e assolutamente non vera, già ampiamente smentita dalla scrivente e ora oggetto di un procedimento penale per diffamazione contro l’autore di tale “bufala”, ossia Fedez.
Riportare tale fake news senza informare i lettori della falsità della notizia e senza dare conto della nostra smentita, appare pertanto diffamatorio e ci costringe e chiedervi, ai sensi della legge sulla stampa, formale rettifica delle informazioni riportate entro e non oltre 48 ore.
Certi che darete seguito alla nostra richiesta, porgiamo cordiali saluti

Ufficio stampa Codacons Stefano Zerbi

Replica alla richiesta di rettifica

A seguito dell’email pervenuta a Open dall’Ufficio Stampa Codacons, tengo a precisare i punti contestati.

In nessun caso, all’interno dell’articolo, affermo o insinuo che Codacons abbia seguito un “comportamento truffaldino”.

In merito alla parte riguardante la raccolta fondi nel sito Codacons, l’articolo riporta le critiche circolate nel periodo come quelle del Direttore Responsabile della testata The Vision, Giuseppe Francaviglia, tra i primi a intervenire sui social. Le stesse critiche verso Codacons vennero mosse da Fedez, poi denunciato per diffamazione nei primi mesi del 2020. Querela per la quale, secondo quanto riportato da diversi media (qui, qui, qui e qui), venne chiesta l’archiviazione nel dicembre 2020, mentre nel 2021 la palla è passata al Gip di Milano, Roberto Crepaldi. Nella richiesta di rettifica di Codacons non si evince che ad oggi Fedez sia stato dichiarato colpevole. Concludo ricordando che qualcun altro è stato decisamente più duro nel rispondere a una richiesta di rettifica del Codacons (qui).

Aggiornamento

In data 16 luglio 2021, il sito dell’associazione Codacons riporta la notizia relativa all’assoluzione del rapper dall’accusa di diffamazione con la seguente dichiarazione:

In relazione alla recente decisione del gip di Milano sulla denuncia per diffamazione presentata dal Codacons contro Fedez, non possiamo che prendere atto che mandare “affanculo” persone per bene sui social sia permesso per il giudice di Milano.

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