Verso la legge sulla parità salariale. La storica Pescarolo: «Giusta direzione, ora investiamo sull’istruzione maschile»

Approvata all’unanimità a Montecitorio, è la volta del Senato. La storica del lavoro a Open: «Tra le priorità resta la questione della cura, con i congedi parentali obbligatori per i papà»

393 sì, nessun voto contrario: è stato approvato così alla Camera, all’unanimità, il testo – prima firmataria Chiara Gribaudo del Pd – che mira a sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e a favorire la parità retributiva tra i sessi. «Un intervento sul codice delle Pari Opportunità del 2006 che non stava, evidentemente, funzionando e che andava corretto», spiega a Open Gribaudo. Ora il disegno di legge è atteso in Senato, e il Pd spera in tempi rapidi. «Abbiamo chiesto che la proposta di legge venga discussa in sede deliberante, e quindi che non si vada in aula se c’è accordo tra le forze politiche» – ma che si approvi direttamente in Commissione. «Spero che le forze politiche come hanno votato all’unanimità alla Camera facciano lo stesso al Senato. È una legge di cui abbiamo assoluta urgenza anche per il Recovery Plan», dice la deputata dem.


Cosa può cambiare

Cosa cambierà? Le aziende con più di 50 dipendenti avranno l’obbligo – se la legge dovesse passare così com’è – di redigere un rapporto sulla situazione del personale con i dati sui salari, il reclutamento, le posizioni e le opportunità di carriera. «Più dati, che aiutino a fotografare meglio una realtà in cui la povertà contributiva delle donne molto spesso è assai più bassa a causa del gender gap, perché vengono licenziate di più e perché fanno molto più part time», ragiona Gribaudo. Il rapporto è obbligatorio per le aziende sopra i 50 dipendenti (ora il limite è a 100) e volontario per tutte le altre, e viene certificato dai ministeri del Lavoro e delle Pari Opportunità. Dovrà essere consultabile da dipendenti, sindacati, consigliere di parità, ispettori del lavoro, Cnel, ministero. Le sanzioni, in caso di rapporti falsi o incompleti, vanno dai 1000 ai 5000 euro, mentre chi non lo presenterà si vedrà revocare gli sgravi contributivi. Sgravi concessi, qui un’altra novità, per mantenere i posti di lavoro, non solo per nuove assunzioni come accade nelle finanziarie. Alle aziende che rispettano i parametri e adottano specifiche politiche per le pari opportunità viene concessa una certificazione di parità, con sgravi contributivi e vantaggi nei meccanismi di gara per le aziende che la ottengono.


Infine un emendamento introdotto proprio prima dell’approvazione a Montecitorio: quello della parità nelle società pubbliche, con l’estensione alle partecipate della disciplina già prevista per le imprese private dalla Legge Golfo-Mosca, con due quinti del Cda al genere meno rappresentato. «Con i 50 dipendenti superiamo gli altri Paesi europei», spiega Chiara Gribaudo. «La direttiva europea è meno avanzata di questo testo di legge».

Alessandra Pescarolo, storica del lavoro

Alessandra Pescarolo

«Siamo sempre stati indietro in Europa dal punto di vista dell’azione dei meccanismi, anche in situazioni che conosciamo poco», commenta a Open Alessandra Pescarolo, già dirigente dell’Istituto regionale per la programmazione economica per la Toscana. Pescarolo fa parte della Società italiana di Storia del Lavoro. «La disparità salariale a parità di mansione è qualcosa che certamente troviamo se andiamo in situazioni di imprese più marginali, più piccole», spiega la storica, che da sempre si occupa di lavoro femminile. «L’Italia è sempre stata molto arretrata».

In Europa le donne lavoratrici guadagnano il 16% in meno dei lavoratori uomini a parità di mansione e di salario, e in Italia questa percentuale può arrivare fino al 20%. Come cambia la posizione dell’Italia in Europa con questa proposta di legge, Pescarolo?

«Per rispondere chiarisco un punto: la maggior quota del gap retributivo fra donne e uomini rilevata non riguarda retribuzioni diverse per mansioni uguali, ma deriva dal peso che nell’occupazione femminile hanno i settori a più alta intensità di lavoro, che basano la maggior parte della loro competitività sui bassi salari. Questo aspetto è difficile da aggredire anche con la nuova legge. Nella storia recente, e ancora oggi, i Paesi dove c’è più occupazione femminile hanno avuto un divario retributivo di genere superiore a quello dei Paesi a bassa occupazione femminile come il nostro. Se in Svezia, prima della pandemia, con l’80% di occupate, il  gap era calcolato al 12%, in Italia, con il 53% di occupate, il gap si fermava al 3,9%. Questo accade perché le donne con livelli di istruzione minori in Italia spesso stanno a casa o fanno lavori in nero, mentre nei Paesi nordici lavorano ma sono concentrate nei servizi sociali sociali e alla persona. Si tratta di settori ad alta intensità di lavoro che impiegano  le donne proprio per il loro basso costo.

Dunque se misuriamo il gap salariale senza tener conto di questa differenza, vedremo che è più alto nei Paesi che offrono più lavoro alle donne. Ma le italiane stanno peggio perché da noi ci sono pochi servizi sociali pubblici nei quali trovare forme di occupazione di questo tipo. Occupazioni che pur essendo mal retribuite e iperfemminilizzate, sono compatibili con le loro competenze tradizionali e conciliabili con il lavoro familiare. Una quota molto importante della disparità salariale è dovuta a questi problemi, che possiamo definire di segregazione professionale: le donne lavorano di solito in settori diversi e a più bassa produttività, meno automatizzati e meccanizzati. Sotto questo profilo la nuova legge cambia poco».

In Italia l’11,1 per cento delle madri con almeno un figlio non ha mai lavorato. Un dato che è quasi tre volte superiore alla media dell’Unione europea, pari al 3,7 per cento. Cosa potrebbe cambiare con questa legge?

«La direzione intrapresa è giusta, mi sembra un testo che ha valore concreto e culturale. Il rapporto delle imprese è in ogni caso  uno strumento conoscitivo importante per capire la situazione delle lavoratrici rispetto alla parità salariale, e identifica anche situazioni di diversità retributiva a parità di mansione, mascherate da definizioni diverse per lavori uguali… Una fotografia corretta del gap retributivo dovrà registrare anche gli orari di lavoro, visto che le donne lavorano più spesso part time. E poi naturalmente c’è la cosiddetta segregazione verticale, ovvero il fatto che gli uomini sono più concentrati nelle professioni di vertice e direttive rispetto alle donne, e per quello hanno salari più alti. Sono cose che si sanno, ma quando si va a guardare alle politiche bisogna avere dati certi e agire alla base di queste diseguaglianze».

Cosa pensa dell’emendamento che estende la legge Golfo-Mosca – prima limitata alle aziende private – a quelle quotate in borsa, a quelle pubbliche?

«La legge ha funzionato e ha aumentato il numero delle donne nei consigli di amministrazione. Dal punto di vista qualitativo è certamente un meccanismo delicato: giudicare il valore delle persone a parità di mansione è difficile. L’intero discorso delle quote è da recepire per un tempo limitato e applicato con senso di responsabilità: il rischio è che in alcuni contesti si arrivi a mettere le donne in alcune caselle a prescindere dalla competenza ma solo per applicare la legge. Il principio dell’effettivo impegno deve essere cruciale. E le donne devono essere sostenute soprattutto a monte del loro ingresso nel mercato del lavoro».

Quali sono le priorità per raggiungere la parità salariale a suo avviso?

«Il problema dei problemi è quello della cura. Qui bisogna guardare agli uomini prima ancora che alle donne. Nel dibattito parlamentare alla Camera vedo che è emersa la questione dei congedi di paternità, che certo andrebbero allungati. Ma provvedimenti del genere sono più complessi e per questo destinati a unire meno le forze politiche e forse il dibattito pubblico. Eppure la questione dei congedi è importante dal punto di vista aziendale ma anche delle famiglie, perché va ad agire, e molto, sulle ideologie. Un congedo obbligatorio di tre mesi per i papà (oggi è di dieci giorni, ndr) comincia a essere un elemento che cambia la cultura e potrebbe apparire per gli uomini più attraente di quanto non lo sia oggi. L’Italia è un Paese diviso da grandi fratture: ci sono ricerche che dimostrano che i giovani e le giovani, le persone che vivono al Nord e quelle con un livello di istruzione più alto praticano già una divisione del lavoro domestico e di cura più paritaria.

E qui si lega il tema cruciale dell’ istruzione, che di nuovo deve mettere al primo posto gli uomini e non le donne. Le donne italiane sono più istruite degli uomini, anche se meno delle loro coetanee straniere. Ma il gap più preoccupante è quello tra i giovani uomini italiani ed europei. Se in una famiglia la donna ha un livello di istruzione più alto e l’uomo più basso, sarà difficile trovare sensibilità sul tema della parità da parte dell’uomo. Le donne devono entrare nelle materie Stem (fisica, matematica, scienze, ndr) certo, ma se non si interviene sull’istruzione maschile, le iniziative prese rischiano di non bastare».

Quindi questa proposta di legge non basta?

«L’urgenza c’è. Quella del Recovery Plan è un’occasione che va colta anche sul piano politico, ma bisogna intervenire nelle scuole sulle questioni di genere: devono diventare un punto di forza dei programmi. E aumentare i livelli di istruzione, soprattutto maschili. Per fortuna il governo mi sembra convinto del fatto che l’istruzione non debba solo seguire l’attuale domanda – nel tessuto imprenditoriale italiano di piccole e medie imprese non c’è richiesta di un’istruzione superiore – ma debba crescere per sostenere l’accesso dell’Italia a una via di sviluppo più alta».

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