A Genova costretti alle cure oncologiche a casa per i reparti pieni di No vax: «E ora sono anche più arroganti e negazionisti»

Secondo il direttore sanitario del Galliera di Genova, i posti letto di malattie infettive sono pieni al 60% di malati Covid che rifiutano il vaccino. Mentre la rianimazione è ormai piena del tutto

La rabbia e la stanchezza sta tornando a prendere il sopravvento sugli operatori sanitari alle prese con i reparti di malattie infettive e le terapie infettive sempre più pieni. Lo sconforto dei medici è legato a quello dei pazienti in cura per altre malattie, che non trovano posto in ospedale perché i posti letto sono tornati a riempirsi di malati di Covid-19, per lo più No vax. Come il caso emerso a Genova all’ospedale Galliera, dove un malato oncologico a rischio sepsi è stato costretto alle cure domiciliari, mentre normalmente: «vengono seguiti all’interno di Malattie infettive o altri reparti – spiega a La Stampa il direttore sanitario dell’ospedale genovese, Francesco Canale – in stanze dedicate che ora sono occupate». Sul caso si era sfogato il medico che segue il paziente, il dottor Andrea De Censi, che durante un incontro pubblico a Milano aveva denunciato che il 60 per cento dei posti letto in malattie infettive è occupato dai No vax.


Dato amaramente confermato da Canale, secondo il quale più della metà dei posti a disposizione per situazioni di media intensità è occupato da chi finora ha rifiutato il vaccino, mentre in rianimazione non ci sono più posti liberi: «E i No vax ricoverati ultimamente sono talvolta arroganti e negazionisti. Non dico tutti, talvolta è così». Rispetto ai ricoveri del passato, ora sono allettate persone più giovani, che vanno dai 45 ai 60 anni. Una situazione che rende ancora più pesante il lavoro quotidiano, dopo due anni di pandemia: «Dagli operatori No vax al Green pass – commenta Canale – al dover vivere la vita di tutti i giorni sempre bardati e sul chi va là. E fa poi rabbia l’ignoranza e la scarsa sensibilità di chi non si rende conto di come sono costretti a lavorare i professionisti in ospedale».


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