Alternanza scuola-lavoro, oggi studenti in piazza. Come funziona la modalità didattica finita sotto attacco dopo la morte di Parelli

Sull’onda emotiva di quanto successo al 18enne ucciso da una trave di acciaio nel suo ultimo giorno di apprendistato, si è innescato un moto di protesta contro l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro. Proviamo a capire come funziona

Sull’onda emotiva di quanto successo a Lorenzo Parelli, 18enne ucciso da una trave di acciaio nel suo ultimo giorno di apprendistato, si è innescato un moto di protesta contro l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro. Anche oggi gli studenti sono scesi in piazza per protestare contro la modalità didattica introdotta dalla legge 107 del 2015 e il ritorno degli scritti all’esame di maturità. Ma perché l’alternanza lavoro è finita sotto attacco? Cominciamo dal dire che già tre anni dopo la sua introduzione, questa disciplina è stata fortemente ridimensionata, a partite dal nome: oggi è corretto chiamarla Pcto, Percorso per le competenze trasversali e l’orientamento. Il lavoro attivo dello studente non dovrebbe essere assolutamente previsto nel progetto formativo. Diversa, però, è la vicenda collegata alla giovane vittima di Udine: Parelli stava sì lavorando, ma con contratto regolare di apprendistato, pilastro del modello «duale» dei centri di formazione professionale.


Parelli frequentava l’ultimo anno del centro di formazione professionale Bearzi, avendo scelto il sistema duale. Quindi, un piano di studi di quattro anni al termine del quale, oltre al diploma professionale in un determinato ambito lavorativo, lo studente può vedersi confermato il contratto di apprendistato, avviato il quarto anno presso un’azienda partner della scuola. Nelle scuole professionali – la cui normazione è in capo alle Regioni e non al ministero dell’Istruzione – , si va per imparare un mestiere. Esistono da molto tempo, prima che l’alternanza scuola-lavoro fosse introdotta grazie alla riforma «Buona scuola» di Matteo Renzi.


Si insegna ai ragazzi come funzionano gli strumenti utili a quel lavoro che andranno a svolgere, la tipologia di materiali, basi di italiano e inglese. Ma la cosa più importante e che ne giustifica l’esistenza è la pratica. All’interno dei centri di formazione professionale esistono laboratori dove sperimentare, si insegnano le norme della sicurezza. Però, siccome non tutta la pratica può essere svolta nell’istituto – per questioni di disponibilità di macchinari, ad esempio -, questi centri stringono accordi con le aziende dove passano circa 4-5 settimane di stage durante il terzo anno e 11-12 settimane durante il quarto. Parelli, in aggiunta, stava frequentando una di queste scuole con sistema duale: al posto dello stage, per accelerare l’avviamento al lavoro, l’ultimo anno di studi aveva avuto la possibilità di firmare già un contratto di apprendistato. Questo è il panorama formativo in cui si è consumata la tragedia del 18enne.

Cosa totalmente diversa è il Pcto, ovvero l’ex alternanza scuola-lavoro. Abbiamo deciso di affrontare questo argomento insieme a due persone che, ogni giorno, hanno a che fare con questi differenti modelli didattici. Salvatore Giuliano, sottosegretario al Miur proprio quando l’alternanza è stata riformata e oggi preside dell’Iiss Majorana di Brindisi che sperimenta forme di didattica innovativa. E Marco Pizzini, docente del Centro di formazione professionale Enaip di Tione di Trento, dove coordina il settore carpenteria in legno ed è il responsabile di stage e apprendistati.

Pizzini: «L’alternanza non c’entra nulla»

L’insegnante trentino parte da un assunto: «Chi si iscrive a una scuola professionale lo fa perché vuole trovare un lavoro e, quindi, imparare a fare un lavoro». Lascia aperto il dubbio che la rinuncia alla didattica per così dire ortodossa possa essere giusto o sbagliato. Ma fa un invito al pragmatismo: «Davanti alla scuola non siamo, purtroppo, tutti uguali». I centri di formazione professionale servono a incanalare in un percorso controllato quei ragazzi che spesso provengono da situazioni complesse. «Se gli obblighiamo a studiare Dante, aumentiamo il rischio di dispersione scolastica. Anch’io sogno l’alta scuola per tutti, però la realtà è un’altra».

Le famiglie da cui provengono hanno esigenze diverse, racconta, e anche certi studenti mostrano una propensione per la manualità e rigetto per la teoria. Pizzini difende la parte della formazione che prevede i tirocini in azienda, «così quando gli studenti terminano il terzo anno possono andare a lavorare avendo fatto un tirocinio in un contesto comunque protetto perché esiste un legame con la scuola». Anche dal punto di vista della sicurezza, «è più pericoloso assumere un ragazzo che non ha messo piede in un’officina», dice.

Pizzini ci tiene a sottolineare la differenza tra i centri di formazione professionale come il suo e i Pcto che vengono implementati nelle scuole tradizionali. Delle proteste di questi giorni, ha trovato fastidioso «lo sbandierare allo schiavismo e il presunto sfruttamento gratuito dei giovani». Non è così, sostiene, nella maggior parte dei casi. Anche perché il lavoro in azienda è parte fondamentale della formazione prevista dai piani di studio regolati a livello regionale.

Il docente è ancora più netto sulla metodologia duale: «In quel caso l’ottica di osservazione del fenomeno deve essere completamente ribaltata. Non si tratta di uno studente che va a lavorare per un po’ del suo tempo, ma di un apprendista duale di primo livello che, nei ritagli, va a scuola per prendere anche il diploma». Pizzini, che forma carpentieri del legno, chiarisce che nei centri di formazione è dedicato ampio spazio al tema della sicurezza sul lavoro. «Che è quello il nocciolo della questione del dramma di Udine». Ma quando i ragazzi escono da scuola e sono accolti come tirocinanti dal datore di lavoro, è quest’ultimo ad assumersi la responsabilità del ragazzo e a dover integrare la formazione sulla sicurezza.

Cita la legge 81 del 2008 – il testo unico sulla sicurezza -, secondo cui il tirocinante sotto questo aspetto è equiparato integralmente a un lavoratore dipendente. «Possiamo anche discutere sull’opportunità dell’alternanza, ma è sbagliato prendere il caso dello studente di Udine come fattore scatenante. Questa è una tragedia che riguarda la sicurezza sul lavoro. Poteva succedere a Lorenzo, magari un anno dopo che era stato assunto da dipendente, o a qualsiasi altro lavoratore di quell’azienda».

Conclude con una condanna rivolta al mondo imprenditoriale: «Purtroppo ci confrontiamo sovente con dei datori di lavoro che se non fossero spinti dalla paura delle sanzioni ad adottare tutte le precauzioni, farebbero lavorare i propri dipendenti con ancora più rischi». Perché? «Perché la sicurezza sicuramente rallenta i flussi di lavoro, comporta dei costi e obbliga a sbrigare più adempimenti burocratici. Non hanno ancora metabolizzato la filosofia del lavorare in sicurezza: le norme esistono per evitare tragedie come quella di Udine».

Giuliano: «L’ex alternanza scuola-lavoro deve avere finalità orientative»

Per il preside Giuliano, «il discorso sulle attività del Pcto è drammaticamente semplice». Quando era sottosegretario, ha lavorato affinché venissero ridotte le ore di alternanza, soffermandosi più sulla qualità delle attività che sulla quantità. «Il mondo scolastico è troppo diversificato per essere trattato in termini generali. Ad esempio, i contesti in cui insistono gli istituti prevedono una differente razionalizzazione dei Pcto». In aree economicamente depresse, ad esempio, è più complesso assicurare un monte orario predefinito per i Pcto in aziende che hanno standard adeguati per formare i ragazzi: «Quantità ridotta di ore per percorsi più qualitativi».

L’altro aspetto che l’ex sottosegretario rimarca è quello della finalità dei Pcto. «Stando alle indicazioni contenute in tutti i provvedimenti, l’ex alternanza deve assolvere allo sviluppo delle competenze trasversali degli studenti – le soft skills, per usare un inglesismo – ed essere utile per l’orientamento». Questi due obiettivi, per Giuliano, si possono dire realizzati se i Pcto hanno una ricaduta vera nei curriculum dei ragazzi. «È stupido fare dei Pcto in un’azienda tessile a uno studente che, magari, ha dimostrato di essere interessato alla letteratura e non ha propensioni per i lavori manuali. Solo per rispondere a un obbligo imposto dall’alto, facciamo perdere ai ragazzi del tempo utile».

Ma la regola inviolabile per Giuliano è che i ragazzi, durante i Pcto, non lavorino mai: «Se ciò accade, vuol dire che la norma non è stata rispettata. La revisione che abbiamo fatto nel 2018 serviva proprio per evitare casi di episodi al limite con lo sfruttamento del lavoro minorile». Tant’è che prima di essere modificata, l’alternanza scuola-lavoro prevedeva un tetto minimo di 200 ore nel triennio per i licei. Per gli altri istituti secondari, il monte orario era addirittura più elevato. Adesso, invece, il minimo è fissato a 90 ore per i licei, 150 ore per i tecnici e 200 ore per gli istituti professionali, sempre da completare nel triennio.

Il preside esorta ad abbandonare questa rigidità nelle ore, «perché se ho 500 studenti da mandare in alternanza ogni anno ma non ho luoghi utili allo scopo dove indirizzarli, sono costretto a cedere a delle storture». E fa un esempio per rendere più chiaro il concetto: «Secondo le finalità dei Pcto, l’azienda non deve vedere quanto uno studente è bravo a usare il tornio. L’azienda, in un progetto di condivisione con il ragazzo e la scuola, deve aiutare il giovane a capire se il tornio può essere lo strumento che vuole utilizzare nel suo futuro». Invece, per come è strutturato oggi il sistema, spesso l’attività esterna viene imposta ai ragazzi.

Giuliano suggerisce come miglioria del sistema una maggiore autonomia delle scuole per i Pcto. «Bisogna coinvolgere gli studenti attraverso gli organi collegiali e dare loro la possibilità di partecipare alla fase di preparazione dei percorsi. Insieme a loro – aggiunge – bisogna anche verificare periodicamente l’efficacia dei Pcto». L’obiettivo è arrivare non a una volontarietà del percorso, chiarisce il preside, «ma a una verifica puntuale delle ricadute sulla crescita dei ragazzi». Insistendo, evidenzia, sull’orientamento, «sempre troppo sottovalutato». Ferma restando l’esistenza di esperienze «bellissime» di alternanza scuola-lavoro, Giuliano racconta di alcuni episodi sfociati nello sfruttamento minorile.

Una delle cause «è che noi adulti decidiamo in maniera autoreferenziale cosa è giusto per i ragazzi, senza coinvolgerli». Anche per questo la terminologia è stata cambiata, evitando di parlare di alternanza scuola-lavoro ma di Percorsi di competenze trasversali e orientamento. «È fuorviante usare la parola lavoro». E conclude lasciando aperta una domanda: «Se in un territorio non ci sono realtà che possono accogliere ogni tipo di studente, è giusto che pur di adempiere a questo obbligo scolastico ci siano dei ragazzi con una spiccata passione per la storia dell’arte che, senza alcun interesse, vanno a lavorare in salumeria, a fare le fotocopie o gli uscieri?».

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