Padova, il giallo dello studente morto il giorno prima della laurea. Il padre: «Non sono arrabbiato, provo vergogna come genitore»

Stefano Faggin lancia un appello agli altri genitori: «La sua morte ci deve insegnare a non caricare i figli con le nostre ambizioni»

«Intorno alle 22 ci ha detto che sarebbe andato con gli amici in un locale di Montegrotto per distrarsi, perché era un po’ teso per la laurea dell’indomani. In realtà abbiamo scoperto che il bar a quell’ora era già chiuso da un pezzo». Inizia così il racconto di Stefano Faggin, il padre del 26enne Riccardo che la scorsa notte è morto sul colpo dopo essersi schiantato con l’auto contro un albero. Il giorno dopo avrebbe dovuto discutere la sua tesi di laurea in infermieristica, secondo quanto aveva raccontato alla famiglia. In realtà era una bugia che portava avanti da mesi e che la stessa università di Padova, a cui era iscritto, ha smentito. «Riccardo è entrato in crisi con il lockdown, che ha coinciso con la decisione di cambiare cerchia di amici. Gli mancava un esame: Filosofia del nursering. È stato bocciato una prima volta, poi una seconda. Era come bloccato. Poi a primavera ci ha detto che era riuscito a superarlo e che finalmente poteva concentrarsi sulla tesi», spiega al Corriere della Sera il padre del 26enne. Da quello che aveva detto ai suoi genitori, la tesi sarebbe dovuta essere un’analisi sulla percezione del servizio sanitario da parte dei pazienti prima e dopo il Covid. Una tesi che Riccardo non ha mai voluto far leggere ai genitori con la scusa che dovesse essere una «sorpresa». «A questo punto non so neppure se quella tesi esista davvero. Non sono uno psicologo ma credo sia iniziato tutto così: una bugia innocente per gestire un momento di debolezza, seguita da un’altra, e poi un’altra. Fino a quando tornare indietro voleva dire rinnegare se stesso».


«Mi sento la responsabilità addosso»

Stefano riferisce che Riccardo non si era confidato con nessuno, neanche con gli amici, che infatti pare fossero convinti che la laurea ci sarebbe stata. «Non sono arrabbiato con mio figlio, non gliene faccio una colpa per non aver saputo gestire le sue debolezze. La responsabilità, semmai, me la sento addosso». E aggiunge: «Provo vergogna come genitore, e non faccio che ripetermi che vorrei essere un po’ più stupido per non ritrovarmi a riflettere sui miei sbagli, a ragionare sul fatto che forse avrei potuto incidere di più sulle sue scelte». Infine, lancia un appello agli altri genitori. «Voglio pensare che la sua morte possa insegnare comunque qualcosa ad altri genitori: con l’impegno di tutti si può proteggere anche chi è fragile, evitando di caricare i nostri figli, anche inconsapevolmente, delle nostre aspettative e ambizioni. Perché a volte, la paura di deluderci può diventare un peso insopportabile».


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