Sfruttamento e campi di lavoro per gli operai: il lato oscuro dei Mondiali in Qatar

2.100 morti segnalati soltanto dal Nepal. Il debito con le imprese e il meccanismo che li obbliga a lavorare

Alcuni degli operai che hanno lavorato agli stadi dei Mondiali in Qatar hanno potuto visitare le loro famiglie solo tre volte in otto anni. E, se finita la competizione pensavano di tornare a casa, pare non sarà così, dato che molti di loro sono rimasti poveri, e in debito con le imprese che hanno fatto i lavori. Non rimane loro altra scelta che continuare a lavorare in Qatar, in condizioni di sfruttamento. Secondo quanto riporta il New York Times, che cita dati del ministero del lavoro nepalese, almeno 2.100 operai provenienti dal Paese sono morti. Ciononostante, circa 2000 lavoratori migranti continuano a partire ogni giorno dal Nepal per andare a lavorare in Qatar.


Il debito con le imprese

Il Qatar, infatti, ha adottato un particolare sistema di sfruttamento per la costruzione degli stadi del Mondiale. Quando la competizione venne assegnata al Paese del golfo persico, Doha non possedeva la necessaria infrastruttura ad ospitare un mondiale. Per questo le imprese qatariote andarono all’estero, in Paesi come il Nepal, l’India e il Pakistan, a reclutare lavoratori disposti a trasferirsi in Qatar per costruire gli stadi. Lo fecero dicendo ai lavoratori che avrebbero dovuto pagare circa 1500 euro per avere il privilegio di lavorare. A quel punto gli operai erano bloccati. Dovevano lavorare per ripagare il debito, ma questo è avvenuto così lentamente che molti sono rimasti bloccati in Qatar per anni. Alla mercé delle imprese che a malapena garantivano loro diritti e giorni di malattia.


«Siamo obbligati a lavorare»

«Lavorare all’estero non è una scelta, siamo obbligati», ha detto Ganga Bahadur Sunuwar, un operaio nepalese, al New York Times. Sunuwar ha sviluppato un’asma molto grave lavorando in una fabbrica di acciaio in Qatar. «Mi sentivo come se stessi morendo nella mia camera» – ha continuato Sunuwar – «ho chiesto di potermene andare per sette volte prima che me lo concedessero per le mie condizioni di salute. Non potevo scappare perché l’impresa per cui lavoravo aveva sequestrato il mio passaporto». Ciononostante, Sunuwar sta pensando di tornare. «Guadagnavo circa 250-300 dollari al mese, mentre qui in Nepal arrivo a 55. Ma so che potrebbe costarmi la vita». Un altro lavoratore racconta al Times che quando gli operai sono usciti a protestare, lasciando il ghetto dove vengono confinati, lontano dal centro di Doha, sono stati messi in carcere per una settimana, per poi essere riportati nei campi di lavoro. «Ora sono riuscito a tornare a casa, ma non ho ancora pagato il mio debito. Dovrò tornare in Qatar e lavorare ancora lì», conclude.

Immagine di copertina: Collettiva

Leggi anche: