Cosa sappiamo dei casi di Sla tra i calciatori professionisti e della presunta associazione con sostanze dopanti

Qualcosa di anomalo c’è, ma non è dimostrato che la colpa sia del doping. Potrebbe riguardare invece la predisposizione genetica

A seguito della scomparsa di Gianluca Vialli alcuni esponenti del mondo del calcio, come il presidente della Lazio Claudio Lotito, hanno riacceso il dibattito riguardo a malattie che sarebbero legate ad alcune sostanze assunte dagli atleti. In mezzo finisce anche Mihajlovic. Secondo il direttore sportivo Walter Sabatini non si dovrebbe parlare di doping: «O almeno non era un doping prestazionale. Si cercava di migliorare la condizione. Con prodotti che in quel momento erano legali, ma presi in grande quantità». Alcuni studi, ad esempio, mostrerebbero una maggiore incidenza di Sindrome laterale amiotrofica (SLA) tra i calciatori italiani. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, i calciatori avrebbero riferito di «flebo, iniezioni o pasticche di sostanze di cui non veniva specificata loro la natura». Gli atleti malati di Sla sarebbero stati sottoposti in particolare a «dosi massicce di Micoren», ovvero uno stimolante respiratorio. Ma tale sostanza oggi risulta illegale e non dovrebbe essere più somministrata. Esiste davvero una correlazione tra l’abuso di sostanze dopanti e la maggiore incidenza di Sla nei calciatori? Leonardo Biscetti, medico specializzato in neurologia a Perugia, in servizio presso l’Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano di Ancona, spiega a Open cosa è emerso fino a oggi nella letteratura scientifica.


Cosa dicono gli studi

Tra tutti i casi associati al presunto abuso di sostanze dopanti nel calcio, tra tumori e presunte morti improvvise, la maggiore incidenza di Sla nei calciatori italiani sembra essere l’unico dato di cui abbiamo realmente un riscontro negli studi scientifici. «Non ho partecipato direttamente agli studi ma conosco la letteratura in merito – spiega Biscetti -, un collegamento causale tra doping e la Sla al momento non è dimostrato». Qualcosa è stato visto. «Sì, ma un’altra cosa. In uno studio di Adriano Chiò e altri ricercatori del 2005, che fece molto scalpore, fu documentata per la prima volta una maggiore incidenza di Sla nei calciatori italiani rispetto alla media della popolazione generale. Faccio presente che il lavoro apparve su Brain, una delle riviste del settore più importanti al mondo». Si vide quindi un significativo incremento del rischio di contrarre la malattia. «Successivamente questo lavoro venne molto dibattuto. Ammar Al-Chalabi e Nigel Leigh pubblicarono nello stesso anno sulla medesima rivista uno scientific commentary, in cui in parte il lavoro di Chiò e colleghi venne criticato. Non furono messi in discussione in senso assoluto i risultati. Fecero notare che si trattava di uno studio retrospettivo». Parliamo quindi di una ricerca che prende in considerazione fenomeni già avvenuti in precedenza senza il controllo dei ricercatori. «Quando si studiano malattie complesse come la Sla non conosciamo le cause scatenanti, se non per rare forme geneticamente determinate. Gli unici fattori di rischio acclarati sono l’avanzamento dell’età e il sesso maschile. Inoltre non possiamo basarci sulla significatività statistica che in genere si usa in medicina. Dato un risultato sperimentale come fai a dire se è casuale oppure no? Devi applicare degli appositi strumenti statistici, per cui la probabilità che il fenomeno sia dovuto al caso deve essere inferiore al 5%. Se questi valori vanno bene nella maggior parte degli studi, quando ti approcci a fenomeni così complessi, come le malattie neurodegenerative, il valore del 5% non è sufficiente, secondo gli autori del commentary».


L’ipotesi della predisposizione genetica

Poi c’è la domanda centrale in tutta questa vicenda: ammesso che ci sia davvero una comprovata maggiore incidenza, come facciamo a dire che il calcio sia un fattore di rischio? «Al-Chalabi e Leigh suggeriscono che potrebbe entrare in gioco qualche altro fattore – continua Biscetti -, per esempio nel modo in cui vengono selezionati i calciatori. Hanno tutti determinate capacità atletiche. Essere particolarmente bravi in questo sport sarebbe forse determinato da un gene, o un gruppo di geni, che allo stesso modo aumentano il rischio di avere la Sla». Quindi il problema potrebbe non essere il mondo del calcio, ma la particolare predisposizione genetica dei calciatori. «Gli autori del commentary invitano in sostanza alla cautela, perché indicare il calcio come principale fattore di rischio sembrava troppo all’epoca». Intanto sono arrivate altre ricerche. «Lo studio più recente risale al 2020. Tra gli autori troviamo anche Damiano Tommasi, attuale sindaco di Verona ed ex calciatore professionista. All’epoca della pubblicazione era il presidente dell’Associazione italiana calciatori. Un’altra firma eccellente è Nicola Vanacore. Hanno fatto un lavoro enorme, prendendo tutti i calciatori professionisti che hanno giocato tra il 1959 e il 2018, avvalendosi dell’album di figurine Panini per raccogliere i dati anagrafici. I casi di Sla sono stati invece raccolti con delle ricerche in Rete».

Il doping non c’è solo nel calcio

Sarebbe stato difficile raccogliere i dati dall’anagrafe e dalle cartelle cliniche di migliaia di calciatori. «Era il massimo che si poteva fare – afferma Biscetti -, hanno poi confrontato quei dati coi casi elencati nel registro della Lombardia, riguardo all’incidenza di Sla nella popolazione maschile. Parliamo di un campione molto più grande di quello considerato nello studio del 2005. I risultati sono solidi, ma con tutti i limiti di una ricerca altrettanto retrospettiva e non basata sulle cartelle cliniche. Ma qui il rischio al massimo sarebbe di una sottostima. Il tasso di incidenza trovato è circa due volte superiore alla popolazione generale. Più studi hanno visto questo dato riguardo ai calciatori italiani, che risulta quindi abbastanza solido». Sappiamo che qualcosa di anomalo c’è, ma non possiamo dire che la colpa sia delle sostanze assunte dai calciatori. «Bisognerebbe sapere quanto è diffuso il doping nel calcio italiano». Dovremmo dedurre che sia superiore rispetto ad altri sport, anche se non abbiamo riscontri in tal senso. «A mia conoscenza non risultano segnalazioni per altri sport riguardo alla Sla. Non si capisce di quali sostanze staremmo parlando. Insomma, il discorso doping sembra piuttosto vago. Del resto in passato i controlli erano più blandi rispetto a oggi. Eppure non vediamo nei calciatori un calo significativo nell’incidenza di Sla in tempi recenti».

Foto – Immagine di archivio dell’ex calciatore Stefano Borgonovo (ANSA/DC)

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