La cuoca che racconta il lavoro nero nella ristorazione a Milano: «Stipendi dimenticati, insulti e vessazioni. Ma ci riproverò»

Alessandra, 25 anni, e la sua storia di sfruttamento

Alessandra ha 25 anni e di mestiere fa la cuoca. Lavora a Milano. E fa parte dei tanti lavoratori della ristorazione che lamentano paghe da fame o in nero. Anche se hanno fatto la cosiddetta gavetta. E oggi rimangono basiti di fronte alle richieste dei datori di lavoro. In un’intervista all’edizione milanese del Corriere della Sera Alessandra racconta di pagamenti ritardati o assenti, promesse non mantenute, insulti e vessazioni. «Tanti miei colleghi si sono arresi e hanno cambiato lavoro. Io voglio provarci ancora», premette. Anche perché ha studiato per fare queste professioni: «Prima la scuola alberghiera. Poi sono entrata nell’Alma, l’alta scuola riconosciuta a livello internazionale. Infine l’università: scienza e tecnica dell’alimentazione».


Le prime esperienze

Il racconto comincia con le primissime esperienze: «A 16 anni sono partita con le stagioni estive al mare, 12-14 ore filate da giugno a settembre per 800 euro al mese. Si impara tanto. Poi qui a Milano ho iniziato in un hotel a cinque stelle, a 22 anni in un ruolo di responsabilità: “capopartita”, cioè la figura che si occupa dell’intera filiera di una parte della cucina. Io seguivo le carni». Ma non è andata benissimo: «Lo chef si permetteva di tutto: insulti, vessazioni, umiliazioni. Quanti pianti mi sono fatta, ma non ero l’unica vittima: in cinque mesi ce ne siamo andati tutti». Poi ha trovato un altro ristorante. Ma qui è durata solo sette mesi. Perché non ha mai ricevuto lo stipendio promesso. E nemmeno il contratto.


Il colloquio

«Al colloquio si era parlato di 1.500 euro più tredicesima e quattordicesima. «Io dovevo pagare l’affitto e il titolare mi allungava ogni tanto, se insistevo, 100 o 200 euro, da farmi quasi perdere il conto di quanto mi dovesse. Ma si può vivere così, rimanendo in cucina fino a notte? Non sapevo su quali entrate potevo contare, e lo stesso succedeva ai lavapiatti e persino allo chef, che aveva 45 anni ma era costretto a dipendere dal titolare». Ha inseguito lo chef per mesi per avere il suo. Poi ha accettato la proposta di un fornitore che stava aprendo un altro ristorante: «Un altro calvario. Tutto è rimasto di nuovo in nero e lavoravamo in una cucina del tutto fuori norma, così come erano irregolari le licenze del titolare e gli assegni con cui venivamo pagati erano scoperti. Però tracciabili».

Il lavoro nero

Per il suo settore, spiega, il lavoro nero è una prassi: «Ti dicono “cominciamo così e poi ci mettiamo a posto” e tu lo fai. Ma dopo un po’ ti fanno passare la voglia, e infatti ho visto tanti amici mollare: una sconfitta». Lei però per ora non vuole lasciare: «Voglio riprovarci, ho 25 anni. Se va male torno a casa».

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