Gli affidi dei “bambini speciali” negati alle coppie Lgbtq+: «Noi discriminate perché lesbiche, ma nel nostro cuore c’è posto»

Si moltiplicano le denunce di coppie arcobaleno che vengono bloccate dai tribunali

«Il vero scandalo è la resistenza di molti tribunali ad affidare i minori a soggetti differenti da quella che è ritenuta, ancora, la normalità». Si riassume così la denuncia dell’associazione M’aMa: dalla parte dei bambini, che si occupa di accudire bambini con necessità speciali – «casi limite, piccoli disabili, sindromi genetiche, gruppi di fratelli, adolescenti terribili» – e di trovare loro, su indicazione dei tribunali, una famiglia adottiva. Il progetto si chiama AFFIDIamoci, ma tanti giudici, a quanto pare, preferiscono non farlo. Almeno quando chi vorrebbe adottare è un singolo o una coppia omosessuale. Nonostante seguano i corsi per l’affido, dove vengono istruiti e si certifica l’idoneità nel nucleo familiare ad accogliere uno dei piccoli. «I tribunali respingono le nostre disponibilità, nell’attesa, molto spesso vana, di una coppia “normale”», racconta Karin Falconi, fondatrice dell’associazione e curatrice del progetto insieme ad Emilia Russo.


La speranza

E così bambini e ragazzi non possono uscire dalle case famiglia. Katia lo sa bene perché anche lei le ha vissute, prima di trovare la propria famiglia affidataria. Almeno finché non arriverà la riforma della legge sulle adozioni che le apra anche alle coppie Lgbtqia+. Sono in 23 mila a rientrare nella categoria di chi ha «bisogni speciali». Giulia – nome di fantasia che appare sulle pagine di Repubblica – è una ragazzina di 13 anni, varie volte respinta da diverse famiglie a causa della sua condizione. Ma non da Elena, 45enne funzionaria di una multinazionale, volenterosa di adottarla e promossa a tutti gli “esami” propedeutici.


Il rifiuto

Erano in fase di avvicinamento. «Stavamo costruendo un rapporto. Ogni weekend Giulia veniva a dormire a casa mia, era così traumatizzata che mi chiedeva di tenerle la mano per tutta la notte. L’avevo già iscritta alla sua nuova scuola», racconta. Ma ad un certo punto qualcuno ha invertito la rotta e deciso che l’affido non s’ha da fare. «Li ho cercati per mesi, ho chiesto che mi spiegassero. Nulla. Non mi hanno nemmeno permesso di salutarla. So che Giulia è ancora in casa famiglia». Marco e Lorenzo, 33 anni e 37 anni, sposati, invece, non sono nemmeno arrivati all’affidamento. Tantissime risposte agli appelli. Ma tre anni dopo i bambini sono ancora lì. Nessuno li ha voluti.

Il lieto fine

A volte, fortunatamente, tutto va per il meglio. Il caso è quello di Marina Mollica e di sua moglie Katya Caterino, 57 e 44 anni, una maestra, l’altra educatrice. «Nel nostro cuore c’era posto per un bimbo. Comunque fosse. Abbiamo letto l’appello per Beatrice, che ha la “sindrome del cri-du-chat” ed era stata abbandonata in ospedale. Eravamo già idonee all’affido ma abbiamo dovuto superare le resistenze verso il nostro essere lesbiche. Ma ce l’abbiamo fatta. Bea ha 3 anni, è come se avesse otto mesi, ancora non cammina e non parla. Non guarirà mai. Lo sappiamo. È e sarà un impegno enorme, ma Bea è la gioia della nostra vita. Oggi ha due mamme, nonni, zii. Se non ci fossimo fatte avanti Beatrice sarebbe ancora in casa famiglia. La nostra prossima battaglia: poter adottare Bea, il nostro piccolo fiore speciale», raccontano con la gioia negli occhi.

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