Leggi datate, diagnosi e farmaci: il percorso a ostacoli per l’affermazione di genere in Italia – L’inchiesta

Le voci di denuncia di chi ha iniziata la pratica per la rettifica dei documenti: un percorso che assomiglia a un’odissea medico-giuridica

«Per riconoscere che sono una persona trans non basta che lo faccia io. Serve che lo dica uno psicologo, un endocrinologo, un avvocato e un giudice. E la voce che importa meno è la mia». Così Guglielmo Giannotta – presidente di Acet, associazione apartitica e senza scopo di lucro che promuove spazi inclusivi e politiche di contrasto alla discriminazione per le persone transgender – sintetizza a Open il percorso che devono affrontare coloro che decidono di chiedere la rettifica dei propri dati anagrafici. Un iter lungo e a ostacoli che non prende in considerazione la piena autodeterminazione delle persone perché fondato su un impianto normativo datato: la legge 164 del 1982.


Una legge datata e i danni che si trascina

La 164 nacque a seguito delle numerose rivendicazioni politiche e per l’esigenza legislativa dell’epoca di regolarizzare le persone transessuali che si operavano all’estero e facevano rientro in Italia. Fu una conquista, ma oggi è considerata una legge fortemente condizionata dalla definizione patologica data dalla comunità medica e dal contesto culturale di allora, che causa ogni giorno danni alla dignità e serenità delle persone. Gli unici aggiornamenti degli ultimi anni sono stati un decreto legislativo del 2011 e una sentenza della Corte di Cassazione del 2015. Quest’ultima, in virtù del «diritto all’integrità psicofisica» della persona trans, ha abolito l’obbligo di dover operarsi gli organi genitali per poter accedere al cambio dei documenti. Ciononostante, la citata integrità psicofisica delle persone resta tutelata solo a metà perché se una forma di medicalizzazione è stata tolta, un’altra permane: la terapia ormonale.


Prassi vs legge: l’odissea delle persone trans e i diritti non tutelati

«Per poter comprendere questo passaggio è necessario partire dal fatto che vi è una grande discrepanza tra quello che prevede la legge e quanto avviene nella prassi», spiega Giannotta. «Questo perché, come spesso accade, la legge non è del tutto completa e così i vuoti sono stati colmati da alcuni protocolli che forniscono linee guida di percorso. Il primo e il più strutturato è stato quello dell’Onig (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), che ancora oggi è il più utilizzato». Ogni persona affronta il percorso di affermazione di genere nel modo che ritiene più consono alla propria identità. Ma coloro che desiderano avviare il percorso “tradizionale” per la rettifica anagrafica devono prepararsi ad affrontare un’odissea medico-giuridica.

Guglielmo Giannotta, presidente di Acet

«La lunghezza e gli ostacoli che siamo costretti ad affrontare hanno ricadute sulla nostra vita quotidiana. C’è gente che non ci dà casa o lavoro dopo che gli abbiamo dovuto spiegare la nostra condizione. E anche già il fatto che io la debba spiegare, consapevole che sarà un fattore incidente, è un problema», racconta Guglielmo. «Io, ad esempio, mi occupavo di ristorazione. Prima del mio percorso di affermazione di genere non avevo problemi a trovare lavoro perché ho fatto la gavetta, so bene le lingue e so fare il mio lavoro con facilità. Ma quando ho fatto coming out tutto è cambiato», prosegue. «Al momento del contratto, nonostante mi avessero scelto a tutti i colloqui previsti, quando ho spiegato la questione documenti, mi hanno tagliato fuori da tutti i fronti».

Diagnosi della «disforia di genere»

Ma cosa prevede il percorso? Prima di tutto la persona deve rivolgersi a uno psicologo esperto del settore che, dopo una serie di sedute, dovrà fare una diagnosi che attesti la cosiddetta «disforia di genere». La comunità lgbtqia+ negli ultimi anni si è scagliata contro il concetto della diagnosi perché considerata patologizzante e contraria alla propria autodeterminazione. «Noi persone trans siamo trattate come bambini incapaci di intendere e di volere che necessitano di essere accompagnati in un percorso impostato dall’alto», sottolinea Giannotta. Diversa la visione di Paolo Valerio, psicologo e presidente dell’Onig, secondo il quale il percorso con il terapeuta «dovrebbe essere considerato uno spazio aperto di riflessione, e non solo una presa in carico per la formulazione di una diagnosi, la quale è solo una meta». Ciononostante Valerio riconosce la necessità di dover cambiare la legge «perché non più idonea ai bisogni di oggi. Fondamentale è partire dal presupposto che l’autodeterminazione va garantita, ma sempre nel rispetto della salute della propria persona».

L’obbligo di medicalizzarsi

Con il nullaosta dello psicologo è poi necessario andare da un endocrinologo che dovrà prescrivere una terapia ormonale e preparare una relazione per l’avvocato della persona transgender. «L’obbligo di medicalizzarsi è un tema controverso perché non tutte le persone che desiderano rettificare i documenti vogliono al contempo iniziare una terapia ormonale. E il tema tocca in particolar modo le persone non binarie», sottolinea l’endocrinologa Giulia Senofonte che da medico si dice contraria all’imposizione della medicalizzazione e adotta delle strategie per venire incontro alle esigenze della persona. Il passo successivo è rivolgersi, con il proprio legale, al tribunale di residenza a cui va presentato un atto contenzioso. Quest’ultimo implica, dal punto di vista giuridico, che vi sia un interesse contrapposto a quello di qualcun altro. Solitamente non c’è mai una controparte e per prassi viene individuata nel pubblico ministero, salvo quando la persona è sposata. In questo caso la controparte è il coniuge. «Tutti questi passaggi non sono previsti per legge, eppure sono una prassi consolidata da cui dover passare per poter sperare che la propria richiesta venga convalidata», precisa Guglielmo di Acet.

Salto ad ostacoli (e le strategie) in tribunale

Lo conferma Roberta Parigiani, avvocata e portavoce del Movimento Identità Trans (Mit), che definisce questo percorso «patologizzato, binario e di gate keeping da terzi specialisti». La legale riferisce che i tempi sono da sempre molto lunghi e che, con la riforma Cartabia, sono aumentati. «Se prima erano 90 i giorni che passavano dalla presentazione dell’atto a quando si potrebbe pensare di fare la prima udienza, ora sono almeno 120», spiega Parigiani. Trascorso questo tempo il giudice può decidere di sentire la parte per conoscere il suo percorso. «La persona qui viene istruita a dare una serie di conferme che il giudice vuole sentirsi dire. Conferme che rientrano in un’ottica binaria, nonché la stessa con cui la legge si approccia a questi percorsi di affermazione. Si parla quindi di forte sofferenza, di disforia, di consapevolezza dalla prima infanzia. Anche se tutto questo non è sempre vero», rivela l’avvocata.

L’incertezza del giudice e l’intervento del CTU

Ma questo potrebbe non bastare. Il giudice, se ritiene che perizia psicologica, relazione endocrinologica e racconto della parte non bastano, può nominare un CTU (consulente tecnico di ufficio), che la gran parte delle volte è uno psichiatra. A dover pagarne le spese aggiuntive non sarà il tribunale, ma la persona coinvolta. «Oltre ad aumentare i costi, aumentano anche i tempi perché – puntualizza Parigiani – i consulenti chiedono un minimo di 90 giorni in su. Poi, trascorso questo tempo, se dovesse essere favorevole a convalidare l’identità della persona, il giudice trattiene la causa in decisione e da lì ancora tra i 30 giorni e i 60 giorni per poi passare in giudicato. Ma ci tengo a sottolineare che il giudice ha la facoltà di nominare più volte il CTU, non solo una».

Dai problemi interni al governo attuale: le cause che frenano il cambiamento

Perché tutto questo non si ferma? Le cause sono molteplici. «Da un lato, se si riconoscesse la nostra autodeterminazione, moltissimi centri specializzati e altrettanti esperti che operano nel settore perderebbero senso di esistere quindi ci sono interessi economici duri da rompere», spiega il presidente di Acet. «Dall’altro, permangono coloro che continuano ad accanirsi contro la fantomatica teoria gender, con tutte le conseguenze del caso», aggiunge. Secondo l’avvocata Parigiani a pesare molto è anche l’attuale contesto politico. «In un Paese come il nostro in cui è stato fatto fuori anche solo il Ddl Zan che non diceva nulla di sconvolgente, figuriamoci la resistenza che c’è nel far passare un nuovo impianto normativo che si fondi sull’autodeterminazione. A maggior ragione oggi che abbiamo un parlamento occupato da una maggioranza ostile a queste tematiche».

Foto di copertina: elaborazione grafica di Vincenzo Monaco

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