L’endocrinologa Senofonte: «Ecco perché l’obbligo della terapia ormonale per le persone trans è un errore» – L’intervista

«Non tutte le persone transgender e gender nonconforming desiderano medicalizzarsi, ma se decidono di avviare il percorso di rettifica anagrafica sono attualmente obbligate a farlo», racconta l’endocrinologa specializzata nei percorsi di terapia gender affirming

Le persone transgender che desiderano cambiare genere e nome sui propri documenti in Italia devono affrontare un percorso lungo e tortuoso. Si parte da una serie di sedute psicologiche al termine delle quali la persona riceverà una diagnosi di «disforia di genere», con cui potrà andare da un endocrinologo specializzato per iniziare una terapia ormonale. Un passaggio obbligatorio che non considera la possibilità che alcune persone abbiano raggiunto un benessere psicofisico tale da non desiderare un percorso farmacologico. Un aspetto contro cui si oppone la comunità transgender, ma anche parte della comunità medica.


L’imposizione della terapia

«Non tutte le persone transgender e gender nonconforming desiderano medicalizzarsi, ma se decidono di avviare il percorso di rettifica anagrafica sono attualmente obbligate a farlo», inizia a spiegare a Open Giulia Senofonte, endocrinologa specializzata nei percorsi di terapia gender affirming. Molto conosciuta nel settore, fa sensibilizzazione e informazione sui social da diversi anni. «Viviamo in un’epoca in cui è stato superato il vecchio concetto dell’essere nati in un corpo sbagliato. Ci stiamo aprendo alla fluidità nell’espressione di genere e quindi sempre più persone non sentono la necessità di dover iniziare un percorso di terapia che ti faccia assumere in modo più definito i connotati associati a un genere o a un altro», spiega l’esperta. Che sottolinea, infatti, come lo stesso concetto di «transizione di genere» sia superato in virtù di quello di «affermazione di genere».


Come funziona la terapia ormonale

La terapia ormonale ha l’obiettivo di conferire determinate caratteristiche fisiche alle persone. Ci sono diversi dosaggi e tipologie. Viene, infatti, personalizzata a seconda delle richieste della persona. «I farmaci che vengono impiegati possono essere ormonali – a base di steroidi sessuali, ovvero testosterone ed estrogeni -, e sono in grado di bloccare l’azione di alcuni ormoni e/o di mimare l’azione di alcuni ormonali, come ad esempio stimolare o inibire la crescita dei peli», spiega Senofonte. Che sottolinea come la scelta dell’uno e/o dell’altra deve esser costruita assieme alla persona che ne fa richiesta.

«Esiste, quindi, un ventaglio di opzioni terapeutiche che va ben aldilà della “sola” mascolinizzazione o femminilizzazione», aggiunge. La terapia ormonale, inoltre, non è pericolosa. «La prescrivibilità è sancita da linee guida internazionali che a loro volta si basano su studi clinici di alta qualità. Le ultime in linea temporale sono gli Standards of care del 2022 proposte dal WPATH, world professional association of transgender health», evidenzia l’esperta. «Se la terapia – prosegue – è prescritta secondo questi criteri e la persona segue uno stile di vita sano e si attiene ai dosaggi e alle indicazioni prescritti, ma questo vale per tutte le terapie, è da considerarsi sicura».

Le carte che vadano a genio al giudice

Ma Senofonte riconosce che si tratta di una visione ancora poco riconosciuta. «C’è un divario culturale enorme tra i bisogni e le richieste delle persone e quello che i giudici vogliono per dare il via libera alla rettifica dei documenti», evidenzia l’endocrinologa che da anni fa informazione sui social, spiegando problematiche e terapie endocrinologiche per scardinare preconcetti e falsi miti. «La relazione che noi dobbiamo stilare deve essere fatta in modo tale che vada a genio al giudice. A me è capitato spesso che l’avvocato me la riportasse indietro per fare delle modifiche, ad esempio per approfondire alcuni dettagli spesso superflui. Ma questo succede anche perché chi valuta il mio documento (così come la relazione psicologica) in tribunale non fa il mio lavoro e non è un medico», racconta la dottoressa.

L’invisibilizzazione delle persone non binarie

Se già per le persone transgender questi passaggi sono complicati e macchinosi, lo è ancora di più per le persone non binarie (enby), ovvero coloro che non si identificano totalmente in uno dei due generi. «Le persone non binarie, infatti, non sentendo la necessità di una medicalizzazione con effetto marcatamente mascolinizzante e/o femminilizzante possono ricorrere ad una terapia molto “tailored” (cucita su miisura come un vestito), a base microdosing di steroidi sessuali e/o o altre opzioni terapeutiche», spiega Senofonte. «Frequentemente le persone enby sono costrette a ricorrere alla medicalizzazione come “exit strategy” per poter accedere alla rettifica anagrafica dei documenti». Ma anche questo si trascina dietro una serie di conseguenze. «Implica ad esempio che la persona andrà davanti al giudice con un’espressione di genere che non è né marcatamente maschile, né femminile, e far capire al tribunale che è legittimo che una persona scelga questo tipo di affermazione di genere non è semplice», commenta la dottoressa.

La sentenza storica che ha riconosciuta una persona non binary: «Una vittoria a metà»

Il 7 marzo 2022 c’è stata una sentenza storica al Tribunale di Roma dove è stata riconosciuta una persona transgender con identità di genere non binaria. Si chiama Alex e il suo è stato un caso pilota a cui, però, non ne sono seguiti altri. D’altronde, si tratta di un precedente giudiziario, e non di legge, a cui i giudici possono decidere se richiamare o meno nelle proprie sentenze. «Inoltre, il problema – chiosa Giulia Senofonte – è che anche in quel caso la persona non binaria ha dovuto scegliere un genere perché il nostro resta un sistema dicotomico che non prevede il genere neutro. La vittoria, seppur a metà, è stato il riconoscimento della non obbligatorietà della terapia ormonale di affermazione di genere per accedere al cambio documenti».

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