Il #metoo della pubblicità: «Mi chiamavano schiava e facevano gli spiritosi sul mio seno. Così sono finita dallo psicologo»

Valentina Selvaggia Mannone racconta le sue esperienze nel settore: alla fine si è licenziata

Valentina Selvaggia Mannone è una copywriter 41enne. Anche lei vuole vuotare il sacco nel #metoo della pubblicità. Che ha visto finora i racconti di molestie sul lavoro e sulla chat degli 80 di “We are social”. Lei in un’intervista a Repubblica racconta dettagli raccapriccianti: «Ho rimosso tanti episodi. Ma non posso dimenticare il colloquio in cui, poco più che ventenne, mi chiesero se avessi un compagno e se volessi figli perché sarebbe stato un problema. Fare domande sulla vita riproduttiva era normale in tante agenzie, piccole o grandi che fossero. Purtroppo la radice marcia si può trovare ovunque», dice a Repubblica.


“Figa di legno”

Per lei le mancanze di rispetto erano all’ordine del giorno: «Anche a livello contrattuale: solo una volta ho avuto un indeterminato. Dovevo andare al lavoro con l’influenza e fare ore extra non retribuite. Da stagista, in varie agenzie, venni definita schiava, come tanti altri. Se tentavo di far notare un’ingiustizia venivo definita isterica o con le mestruazioni. Mentre se un collega sbatteva i pugni, era un figo attaccato al lavoro». Mannone dice che anche se era la collega con più esperienza non veniva messa mai a capo dei progetti. E non solo. Poi c’erano i «continui commenti sul mio seno prosperoso. Le battute mi irritavano e se lo manifestavo venivo sminuita e definita una figa di legno». Dice anche di essere «cresciuta con un modello errato. Bisognava sopportare questi soprusi, altrimenti si perdeva il posto di lavoro. Avendoli subiti in varie agenzie, sono arrivata a credere di essere sbagliata. Ce lo inculcavano e finivamo in bagno a piangere. Anche se il mio carattere, quando mi sento vessata, mi porta a ribellarmi e diventare fredda. Tanto che un superiore, una volta, mi chiese di essere più bagascia».


“Più bagascia”

E lei «seppur nauseata, capii che non c’era una vera e propria allusione sessuale. Intendeva che dovevo mostrarmi più piaciona e accomodante. Paradossalmente ci provai, ma prevalse subito il senso di fastidio e inadeguatezza». Mentre i suoi superiori inserivano nei progetti colleghe compiacenti o che rispecchiavano il gusto estetico del cliente. E racconta un aneddoto: «Durante una riunione, un mio capo mi ha umiliata davanti a tutti, addossandomi la colpa di un errore che non dipendeva da me. Mi attaccò perché tentai di smentirlo, voleva usarmi come scudo». Alla fine, trattata come una schiava, ha deciso di licenziarsi: «Sì, sono scoppiata, ho iniziato un percorso con uno psicologo per prendere consapevolezza degli abusi subiti e riacquistare fiducia nelle mie abilità lavorative. C’è voluto tempo per ripartire: ora curo pochi clienti da freelance e insegno ginnastica acrobatica. Col senno di poi non ricadrei in tanti errori».

Le denunce

Secondo Mannone questo meccanismo di prevaricazione si può rompere attraverso «le denunce che non siamo state capaci di fare noi che abbiamo subito il bullismo anche per un jeans largo indossato al posto di una gonna alla moda. Per il solo fatto di lavorare nella pubblicità dovevamo ostentare la nostra femminilità».

Leggi anche: