Hong Kong, la sconfitta del governo (e della Cina): non sarà censurato l’inno dei manifestanti pro-democrazia

La sentenza sulla Corte suprema sul brano «Gloria a Hong Kong», diventata canzone simbolo delle mobilitazioni anti-Pechino esplose nel 2019

La Corte suprema di Hong Kong ha respinto la richiesta del governo di mettere al bando la canzone di protesta Gloria a Hong Kong, divenuta l’inno delle proteste di massa pro-democrazia del 2019. «Non posso essere persuaso che sia giusto e conveniente concedere l’ingiunzione», ha spiegato il giudice Anthony Chan nella sua sentenza. Il dipartimento della Giustizia del governo di Hong Kong aveva chiesto al tribunale di non «mandare in onda, cantare, stampare, pubblicare, vendere, offrire in vendita, distribuire, diffondere, mostrare o riprodurre in qualsiasi modo la canzone». Oltre a chiedere una pronuncia giudiziaria, il governatore John Lee ha anche dichiarato che chiunque abbia a che fare con quel brano potrà essere incriminato per «sedizione», sulla base di una legge del periodo coloniale, o per «secessione», ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale del 2020 che prevede una pena fino all’ergastolo.


Se il giudice avesse accolto la richiesta del governo di Hong Kong, Google e gli altri motori di ricerca avrebbero dovuto bloccare l’accesso alla canzone – già proibita nelle scuole – in tutto il Paese. «La libertà di espressione non è di natura assoluta, ma è comunque un diritto molto importante che non può essere legalmente limitato senza che siano soddisfatti i requisiti di certezza del diritto e proporzionalità», ha detto Anthony Chan spiegando la sua decisione. Il brano Gloria a Hong Kong è diventato un inno ufficioso delle mobilitazioni pro-democrazia che si sono svolte nel 2019 nel Paese. Da allora, Hong Kong è passata sotto un più rigido controllo della Cina, che considera la canzone come un insulto al suo inno nazionale.


Credits foto: EPA/Bertha Wang

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